​Edoardo Leo: «Non sono mai stato bello. Dodici anni fa ero uguale ad ora, ma non avevo il successo»

L’attore dall’8 aprile sarà su Rai1 con la serie “Il Clandestino”

Edoardo Leo: «Non sono mai stato bello. Dodici anni fa ero uguale ad ora, ma non avevo il successo»
di Ilaria Ravarino
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Venerdì 5 Aprile 2024, 23:49

In smoking sta benissimo, peccato duri poco. Una manciata di minuti: giusto il tempo di convincere lo spettatore che in fondo sì, Edoardo Leo, 51 anni, sarebbe un credibile 007 - o un qualsiasi eroe d’azione con licenza di uccidere e sedurre - se solo lo volesse. Nella fiction in sei serate Il Clandestino - Un investigatore a Milano (dall’8 aprile su Rai1), co-prodotta da Rai Fiction con Fulvio e Paola Lucisano, e diretta da Rolando Ravello, ci va vicinissimo: comincia come Bond, incaricato di proteggere il console libico, ma poi rischia di finire come Hancock, il supereroe alcolizzato, ridotto a vivere nel retrobottega di un garage. Per interpretare la parabola di Luca Travaglia, ex ispettore di Roma finito a fare il buttafuori a Milano (ma paladino degli ultimi e degli indifesi), Leo sembra fare tutto il possibile per cancellare quell’immagine da bravo ragazzo che - ultimamente - gli va stretta: spara e mena cazzotti, beve cocktail micidiali, si ubriaca, si maltratta. Non era un vezzo da attore, insomma, quando, a fine riprese, disse di volersi prendere una pausa. 
Perché la pausa?
«Ero svuotato: non tanto fisicamente, perché non faccio mica il minatore, ma creativamente. Ho sospeso tutto e per un anno ho fatto solo teatro. Ora sono felicissimo. La tournée è ancora in corso: sarò a Roma il 12, 13 e 14 aprile per chiudere il 20 maggio». 
Ora però è su Rai1: Auditel e ascolti la preoccupano?
«Sento la responsabilità, perché la Rai ha investito nel prodotto. Ma ho scelto di fare questa serie senza sapere su quale canale sarebbe andata».
Come ne misurerà, allora, il successo?
«C’è un detto: “per capire davvero qualcuno, devi camminare due giorni con le sue scarpe”. Luca comincia a occuparsi del prossimo solo quando cade nel baratro e fallisce. Solo allora apre gli occhi. Sarei soddisfatto se la serie sollevasse un velo sugli invisibili. A prescindere dalla loro nazionalità».
Si muove con sicurezza nei panni dell’ex poliziotto. Si è allenato?
«Mi preparo allo stesso modo anche quando giro le commedie. Ricostruisco la biografia invisibile del personaggio: che scuole ha fatto, che fidanzata aveva, da quale famiglia proviene...».
Lei è l’incubo degli sceneggiatori, quindi.
«No, perché questo lavoro lo faccio tutto da solo. Di Travaglia so anche che tipo di musica ascolta: etnica, world music, quella senza parole. Perché è un solitario, un taciturno. Abbiamo molti più punti in contatto di quanto non sembri, io e lui: anche io sono riservato, schivo». 
Ha usato stuntman o ha fatto tutto da solo?
«Ho avuto uno stuntman come insegnante e il regista è un esperto di jujitsu. La scena più complicata? Quella in cui faccio a cazzotti e nel frattempo parlo arabo. Travaglia è molto fisico, diverso dai poliziotti di Rai1, che risolvono i casi con l’intuito. Lui mena. Divertentissimo». 
Si aspettava, dopo tante commedie, un ruolo del genere?
«Veramente sono io che ho chiamato il regista per farlo. La serie è stata sviluppata nel mio ufficio. A volte gli attori vengono etichettati. A me è capitato con le commedie di successo».
E invece?
«Invece, specialmente nell’ultimo anno, ho fatto film più autoriali. Mia (di Ivano De Matteo, ndr), il film di Cavani (L’ordine del tempo, ndr): come attore mi sento più vicino, per indole, a quei personaggi che a quelli delle commedie. Si cresce, si cambia, si vogliono fare cose diverse. Se devo fare tv, mi prendo dei rischi».
Se le dicono che in smoking sta benissimo, ci rimane male?
«Non ci rimango male se non finisce nel titolo. A volte parli di cose molto introspettive, poi nei titoli...».
Non voleva dire addio alla fama del “bello”?
«Ma io non sono mai stato bello: dodici anni fa ero uguale ad ora, la differenza è che non avevo il successo. Facevo Il medico in famiglia ed ero un ranocchio. La gente ti identifica con i tuoi personaggi: nessuno mi aveva mai detto, allora, che ero bello».
Ha per caso un’idea per il titolo?
«Potrei dire una cosa: ho cominciato nell’aprile 1994 e questa serie uscirà l’8 aprile.

Non c’era un miglior modo per festeggiare i miei trent’anni di lavoro. Anzi, di gavetta».

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