«Un figlio è come un reato», così vengono discriminate le donne dello sport. Rizzitelli: «Sì alle quote rosa»

«Un figlio è come un reato», così vengono discriminate le donne dello sport. Rizzitelli: «Sì alle quote rosa»
di Maria Lombardi
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Sabato 17 Agosto 2019, 10:41 - Ultimo aggiornamento: 12:23

La pallavolo è stata tutto, per quindici anni. Passione e lavoro. «E per quindici anni ho firmato un accordo con la società che prevedeva la clausola anti-maternità. Se resti incinta il contratto si risolve. I procuratori, come ci ha raccontato una giocatrice di basket di A1, raccomandano due cose alle atlete: non finire in galera e non restare incinte». Aspettare un figlio come commettere un reato. Luisa Rizzitelli di soprusi ne ha sopportati tanti, negli anni delle gare, sa quanto lo sport può essere cattivo con le donne, e ingiusto. Vinci e guadagni sempre meno degli uomini. Conquisti il mondo e resti dilettante, «anche Federica Pellegrini, una vergogna». Batti i record, e comunque ti guardano le gambe. Vuoi fare carriera nelle federazioni. Peccato, i posti sono tutti occupati. Da uomini. Nel 2000 Luisa Rizzitelli (che si occupa anche di comunicazione e marketing sportivo) ha fondato Assist, l'associazione nazionale atlete, per tutelarne i diritti. «Sono un animale da combattimento, come diceva mia madre. Mi piace lottare».

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La legge sullo sport appena approvata al Senato segna un passo in avanti. L'articolo 5 parla esplicitamente di «parità di trattamento e di non discriminazioni nel lavoro sportivo....».
«Una rivoluzione, un passaggio epocale. Per la prima volta nella storia si parla di lavoratore sportivo e ci saranno dei parametri oggettivi per stabilire chi può essere considerato tale. Non lo decideranno più le Federazioni ma lo Stato e non potranno esserci differenze di genere. L'articolo 8 stabilisce inoltre che le associazioni sportive devono prevenire molestie, violenze di genere e discriminazioni. Adesso aspettiamo i decreti attuativi, ci auguriamo vengano eliminate le situazioni di svantaggio sopportate finora le atlete».

In che modo le sportive sono state finora discriminate?
«Innanzitutto sono state condannate al dilettantismo dalla legge 91 del 1981 che ha riservato lo status di professionisti solo agli uomini. Pagate con rimborsi spese, anche le campionesse olimpiche. In tutte le discipline sono state negate tutele elementari, da quelle per la maternità ai contributi previdenziali. Chi rimane incinta è costretta a lasciare. Un giocatore di basket di A1 è un professionista, una giocatrice della stessa serie è dilettante. Discriminazioni tali da rendere la condizioni delle donne nello sport incostituzionale».

Le istituzioni sportive sono in mano agli uomini. Cosa pensa delle quote rosa?
«Ci sono pochissime allenatrici. E in 70 anni non c'è mai stata una donna presidente in nessuna delle 45 federazioni. Le dirigenti sono meno del 10 per cento. Le quote anti-discriminazione di genere sono uno strumento temporaneo e necessario. Il presidente del Coni Malagò ha stabilito che un terzo dei consiglieri federali dovrà essere donna. Un passo avanti anche questo».

Esiste anche un problema di mentalità maschilista da combattere?
«Le atlete sono sotto scacco degli stereotipi sessisti. Si pensa ancora che ci siano sport non adatti alle donne. E di una campionessa non si dice quanto è forte ma si valuta anche il suo aspetto. Serve un impegno da parte di tutti per abbattere gli ostacoli culturali».

Vedere una donna arbitrare per la prima volta una finale maschile della Uefa è un gran traguardo, anche se qualcuno ha malignato: l'hanno scelta perché donna.
«È stata scelta perché era all'altezza e l'ha dimostrato. Questa designazione, peraltro voluta da un uomo, il capo degli arbitri Uefa, Roberto Rosetti, ha un valore simbolico potentissimo e abbatte definitivamente credenze al limite del ridicolo di chi pensa che le donne non possano allenare, arbitrare o parlare di calcio con competenza. Vedere in campo un'arbitra è creare modelli cui le ragazze possono ispirarsi. E onestamente è bellissimo».

I mondiali di calcio femminile hanno portato alla ribalta la questione della parità di compensi. L'Ajax ha introdotto l'equità dei salari. A che punto siamo in Italia?
«I campioni non hanno limiti di ingaggio. Le calciatrici non possono superare i 27mila euro l'anno di rimborso spese perché al momento sono dilettanti. Tetto salariale e zero tutele. Una situazione paradossale. I mondiali femminili hanno messo in evidenza una discriminazione che Assist combatte da anni. Come l'assurdità che vivono tenniste e golfiste: all'estero sono professioniste e in Italia dilettanti. Secondo noi, le federazioni sportive nazionali, dal momento che gestiscono soldi pubblici, non possono dare compensi differenti a uomini e donne».

Perché le sportive finora hanno accettato queste situazioni di svantaggio?
«Le atlete non si ribellano perché sono in una situazione di estrema debolezza. Ogni tesserato di una società deve discutere le controversie all'interno della giustizia sportiva. Se una atleta si rivolge a un tribunale per rivendicare tutele, ad esempio nella maternità, viene squalificata. Chi si ribella è fuori. Speriamo nella nuova legge per uscire da questa situazione di scandalosa disparità».

 

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