Treia, parlano i profughi di Villa Bartoloni: «Scampati alle bombe, qui stiamo bene»

Treia, parlano i profughi di Villa Bartoloni: «Scampati alle bombe, qui stiamo bene»
di Alessandra Bruno
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Lunedì 18 Maggio 2015, 15:21 - Ultimo aggiornamento: 19 Maggio, 13:14

TREIA (Macerata) - Profughi e "lusso" a villa Bartoloni, i migranti: «Siamo sopravvissuti alle bombe in Libia, non volevamo morire, qui stiamo benissimo».

Negli occhi dei 19 stranieri che alloggiano nel cuore di Treia, a pochi passi dall'ex fornace, c'è tutta la speranza di chi ha avuto una seconda occasione. Sbarcati in Sicilia per sfuggire alla guerra libica, la gran parte di loro è nelle Marche da sette mesi: da quattro settimane vivono nella struttura Bartoloni e hanno già sollevato qualche polemica tra i residenti.

SPESA E TABLET

Sono richiedenti asilo, dai 21 ai 38 anni: 13 provengono dal Bangladesh, 3 dall'Afghanistan e 3 dal Pakistan.

La casa, immersa in un grande parco, ha sette camere, tre bagni, due tv, tre frigo e un barbecue. Comodità che non sono sfuggite ai vicini, incuriositi dallo stile di vita dei nuovi arrivati, avvistati con borse della spesa "giganti", Iphone e gingilli techno da far invidia. «Il Gus dà ad ognuno di noi 195 euro al mese - racconta il 22enne Bhuyam Mojaar - 120 li usiamo per mangiare e quello che resta per comprare le sigarette o quello che ci serve. Vestiti, shampoo, schiuma da barba e beni di prima necessità ci vengono donati dal Gus. Gli smartphone, però, li abbiamo acquistati con i soldi della mensilità, risparmiando sul cibo. Abbiamo una scheda italiana con cui ci teniamo in contatto con i familiari rimasti nella nostra terra d'origine». I profughi passano le giornate all'aria aperta, si prendono cura di piante e fiori, passeggiano nei dintorni alla scoperta del territorio, giocano a calcio tra di loro, ascoltano musica con le cuffiette e pregano: «Siamo tutti musulmani, tranne uno che è indù - continua Bhuyam - tra noi parliamo in lingua urdu, quella che ci accumuna di più, ci sono pochissime differenze lessicali». Ognuno ha una storia difficile alle spalle, fatta di sacrifici e voglia di riscatto: «Abbiamo raggiunto l'Italia con la nave - ricorda ancora il giovane - con l'aereo era impossibile viaggiare, i voli erano bloccati. Volevo vivere, morirò quando sarò vecchio. La mia famiglia mi manca. In Bangladesh, 9 anni fa, ho perso la mia fidanzata in un incidente stradale».

L’INGEGNERE

In un passato recente c'è chi ha lavorato in un fast food, chi ha imparato a fare il pane, chi ha fatto il tappezziere e chi è diventato perfino ingegnere informatico. Come Sahib Zada, 38 anni: «Ho vissuto cinque anni in Germania - svela in un inglese perfetto - non mi hanno dato il permesso di soggiorno e non sono stati molto carini con me, c'è una sorta di razzismo, forse. Qui invece "people are friendly", le persone sono disponibili». Il clima è disteso, il muro dei pregiudizi è semplice da abbattere. Tradizioni e abitudini diverse si amalgamano alla perfezione, nel segno del rispetto reciproco: «Mangiamo separatamente - scherza Sahib - perché in Afghanistan il pesce si prepara con spezie troppo piccanti, mentre pakistani e bengalesi amano pollo, riso e verdure. La colazione è "selfmade", prepariamo le piadine da soli. Conosciamo la cultura italiana: adoriamo la pasta, il pane e i vostri bellissimi scorci di paesaggio». Rasel ha messo da parte i soldi per comprare la bicicletta: «Me l'ha venduta un amico pakistano - dice - la presto anche ai miei amici, così possiamo muoverci più velocemente». E continua con una battuta: «Alcuni di noi prima di abitare a Treia sono stati per qualche tempo a Rocchetta, avevamo un'insegnante di italiano. L'inglese è internazionale, ma a voi italiani non piace molto. Presto prenderemo altre lezioni di lingua, così potremo fare nuove amicizie». «Vogliamo integrarci, forse resteremo qui un altro anno, siamo in attesa dei documenti. Ci piacerebbe tornare a lavorare. Se siamo brave persone? Lo sa solo Dio», chiudono i migranti con un sorriso che vale più di mille parole.

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