Slavoj Zizek, quel traumatico, positivo eccesso chiamato evento

Slavoj Zizek, quel traumatico, positivo eccesso chiamato evento
di Carmine Castoro
6 Minuti di Lettura
Lunedì 24 Agosto 2015, 19:02 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 13:22
Evento senz’altro la parola più abusata della attualità. Giornali, rotocalchi, network televisivi, pubblicità, star-system, pullulano di “eventi”. Il lancio di un nuovo telefonino, più aggiornato e ultrapiatto, è un evento. Un cataclisma naturale, un incidente aereo, una ondata di caldo africano, sono eventi. Il red carpet di un noto festival cinematografico è evento. Una ricorrenza da calendario, un’expo, una mostra, la foto a seno nudo di una diva, la stretta di mano fra due presidenti, sono tutti incoronati e incipriati come “eventi”. E sono tutti storici, imperdibili, inusuali, mai visti prima, devono per forza far sgranare gli occhi. Ma che cos’è davvero un evento?



Il grande filosofo e sociologo sloveno Slavoj Zizek ce lo spiega a chiare lettere in questo suo bellissimo testo, “Evento” (Utet, pagg. 222, euro 14), classica opera-pop per un “guru” mondiale del pensiero come lui abituato ad attingere ad un patrimonio ricchissimo ed eterogeneo di materiali e citazioni: dalle opere di Hegel e Lacan di cui è illustre esegeta, al cinema, alla letteratura, ai serial tv, finanche ad aneddoti personali e a barzellette che si tramandano in alcune culture, e che sono più illustrative di trattati e volumi di metafisica. L’evento deve portare un mutamento, uno scompaginamento reale, tangibile, profondo e condiviso, negli schemi d’azione dominanti, nelle grammatiche dell’ortodossia, nei livelli di potere ufficiale, nelle staticità degli apparati che creano prevedibilità e controllo. I pattern di riferimento ne devono essere scossi, le cornici simboliche incrinate, dobbiamo essere ricondotti con un effetto traumatico – ma anche con benevola forza – a quella Caduta primordiale che non ha armonie sovraempiriche e piani di salvezza a cui appellarsi. “In un Evento, non cambiano soltanto le cose, ma cambia anche il parametro col quale misuriamo i fatti del cambiamento stesso: un punto di svolta modifica l’intero campo all’interno del quale i fatti appaiono”, e dunque: “Nel capitalismo, in cui le cose devono cambiare di continuo per rimanere le stesse, il vero Evento sarebbe trasformare il principio stesso del cambiamento”.



La scelta è fra due frontiere epistemiche ben precise. Da un lato, quella che può ben essere rappresentata dagli studi, citati da Zizek, di Ahmed El Hady quando questi dice: “Il frame “neuroscienza educazionale” si combina con la promozione di “cultura esperta” su scala globale per convertire la popolazione in individui “vuoti”, indottrinati da una conoscenza frammentaria, che agisce localmente per risolvere problemi specifici dissociati da ogni sforzo collettivo e globale”. Dunque, controllo dei nostri comportamenti attraverso narrazioni e compensazioni che non prevedono il pensiero critico, l’autonomia, la consapevolezza, ma solo il “godimento” più rovinoso e insensato, e l’uso di oggetti-placebo, formule “magiche”, politiche del conformismo, gadget assolutori (quelli che Lacan in uno strano neologismo chiamava “les lathouses”, unendo il termine francese che sta per “ventosa” con la “ousia” greca che è sostanza degli enti). Dall’altro lato, un elogio della contingenza incarnata, delle linee di biforcazione, delle dissociazioni e delle non-assuefazioni alle cifre dell’omologazione vigente e dell’osceno culturale, spirito inteso come processualità, dis-ordine e disgiunzione, moto del vivente, che rinnega qualsiasi categoria onnisciente, qualsiasi riposante principio del Buono. “Interviene un Assoluto che fa deragliare il ben bilanciato corso dei nostri affari quotidiani: non è soltanto il capovolgimento dell’ordinaria gerarchia dei valori, ma un fatto molto più radicale – un’altra dimensione entra in scena, un diverso livello dell’essere”.



Zizek rilegge alcuni classici del pensiero occidentale, filosofico e teologico, smontandoli e rimontandoli come un giocattolo semantico, come un trastullo-dada, talvolta, che forza l’approccio ermeneutico classico: del Cristo prende l’intersezione dell’Eterno con la temporalità, e sembra volutamente dimenticare sullo sfondo che è pur sempre, quella cristiana, una dottrina della Rivelazione e del Giudizio; di Platone dice addirittura che, dell’evolversi della sua stessa teoria delle Idee, “non era pienamente consapevole”, “fraintese” se stesso, che “non era pronto, o non era in grado, di accettare” taluni sviluppi del suo mito filosofico, se così possiamo chiamarlo. Da un autore Zizek non deroga: Lacan, di cui riconferma appieno l’impalcatura Immaginario-Simbolico-Reale, dove proprio a quest’ultimo viene attribuito quel carattere di eccesso, dispendio, indeterminato, inconsistente, di Grande Altro che moltiplica le nostre attitudini, fissa/ossessiona le nostre individualità, le spinge alla creazione, all’atto, a nuove investiture di verità.



La Totalità, insomma, va assunta zizekianamente come categoria dialettica, non nella tradizionale interpretazione hegeliana del particolare che viene deprezzato e svilito poiché elemento confirmatorio dell’essere della totalità stessa, ma come riprendersi nell’altro, infinito riferirsi a sé e ri-ferire sé, come una ferita che perdesse sangue e senso, come se fosse un eterno “senza”, non espellendo il negativo ma assumendolo, incaricandosene, trattenendolo. “Il tutto è il falso” diceva giustamente Adorno, ma dobbiamo sforzarci di evitare le totalità-freezer, il Potere-stroboscopico dove il movimento è macchiettistico e rapsodico, e capire che la Falsità è intrinseca al Tutto, poiché è il ciò-che-crediamo, e che questo è al di là dei normali assiomi della morale corrente, è già-da-sempre un non-Tutto.



La filosofia si realizza solo nel risveglio, nella presa di distanza, nell’anticipazione di ciò che non c’è, nell’interruzione del continuismo e dell’organicismo sociali, nella differenza che stona rispetto all’ambiente circostante, “straniamento” dice Badiou, “spostamento” come altrove diceva Zizek: “il pensiero è quel processo che nasce dallo sfondamento della totalità del sapere stabilito o, come diceva Lacan, il processo che fa un buco nel sapere”. Apoplessia contro anemia. Una negatività che diventa “affermazione”, inversione di scelte, e non solo spirito critico barricadero, poiché porta con sé nuovi assetti di pensiero e di relazione. In questo senso la neutralizzazione del Potere non solo rende positivi, festosi, immanenti alcuni concetti e alcune realtà particolarmente scomodi, ma è come se li sottoponesse a denaturazione, adulterazione, liofilizzazione, smagnetizzazione. Esattamente come quando usiamo l’alcol denaturato per disinfettare un taglio senza che ci bruci troppo la ferita; come quando beviamo un vino fidandoci di una etichetta doc truffaldina; come quando usiamo la bustina di qualche prodotto essiccato in granuli; come quando, nei vecchi nastri o vhs, speravamo di trovare musica o registrazioni importanti e si sentiva solo il fruscio della involontaria cancellazione. Il negativo in questa maniera diventa negletto e alloglotto, subisce dei sostanziali omissis e viene “parlato” dall’esterno secondo una lingua che non gli apparteneva sin da prima.



Il punto, allora, non è recuperare una “realtà” presunta autentica o di sottosuolo, che conserverebbe il valore e la preziosità delle possibilità vere dell’uomo, ma insistere in un’opera di “framing e reframing”, come dice Zizek, cioè di libera imbastitura delle leggi e delle certezze che riguardano la comunità, l’eguaglianza, la dignità e l’emancipazione di tutti. Pena lo scadere in quell’”en-framing” (incorniciamento) con cui Zizek traduce il Ge-stell heideggeriano, l’impianto efficientista e operazionista della techne come naturale e autolesionistico modo di apparire dell’Occidente stesso nell’epoca contemporanea: “un modo di inquadrare la realtà che mette in pericolo l’inquadramento stesso: l’essere umano ridotto a un oggetto di manipolazione tecnologica non è più propriamente umano: perde infatti la sua caratteristica più propria: l’essere estaticamente aperto alla realtà”. Oltrepassare gli status quo significa, allora, per il filosofo sloveno, “attraversare la fantasia”, agirla, vivere in una universalità fintanto che non capiamo che dobbiamo correggerla, curvarla, comprimerla o espanderla, ma per il chiaro e non pilotato beneficio di tutti. In un linguaggio mediatico potremmo dire che ci serve sempre una fiction per imbrigliare la nostra angoscia primordiale, ma che questa non diventi marcia illusione, comoda fiaba nelle fondine dei gendarmi del mondo.



Diversamente avremmo quei terribili supplementi ideologici del Capitalismo che sembrano neutrali e intoccabili: il gioioso intrattenimento della televisione, l’iperrazionalità dello scientismo che risolve tutto in oggettività classificabili e processi neuronali, o esercizi meditativi di sconfessione del sé e del reale come il buddhismo contro la cui destituzione della responsabilità personale si scaglia duramente Zizek. “Il vero Evento è l’Evento della soggettività stessa, per quanto illusoria possa essere”: decostruzione con etica, dunque. E senza nemmeno troppa moderazione. Diciamo un bel film di cui aspettiamo il sequel…