Lichtner: «Vaccino, sperimentazione vicina: Latina disponibile ad ospitarla»

Miriam Lichtner
di Giovanni Del Giaccio
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Domenica 5 Luglio 2020, 19:00 - Ultimo aggiornamento: 19:38

«Il vaccino è un'opportunità tangibile, diversi gruppi ci stanno lavorando e a breve si avvierà la sperimentazione. Siamo pronti a ospitarla se verremo coinvolti». Miriam Lichtner, dirigente delle malattie infettive al Santa Maria Goretti di Latina e docente universitaria alla Sapienza, conferma che non va abbassata la guardia rispetto al Coronavirus ma anche che la fase emergenziale è un ricordo. Che resterà indelebile, ma dopo il quale si guarda avanti. Ad esempio con l'ambulatorio post Covid avviato ormai da alcune settimane.
«Un'attività multidisciplinare che ci consente di valutare la situazione dei pazienti, a partire dal danno polmonare. Insieme ad Antonella Sarni e al gruppo degli pneuomologi verifichiamo la situazione partendo dai marcatori infiammatori e poi verificando le condizioni di chi sta meglio, è guarito, ma porta segni importanti. La tac in un primo momento era fatta senza mezzo di contrasto, ci dava la conferma della polmonite interstiziale, adesso con la perfusione si valuta anche l'aspetto vascolare».
E qual è la situazione? «C'erano quadri anche gravi che hanno avuto una buona risoluzione, hanno ancora dei segni ma si notano miglioramenti. Sono coinvolti sia gli interstizi sia i vasi, potrebbero restare dei reliquati, va monitorata la situazione».

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Le verifiche si svolgeranno tra sei mesi e un anno. «Quando è arrivata l'emergenza abbiamo trasformato l'ambulatorio, dovevamo vedere anche pazienti storici con Hiv, tubercolosi, epatite e non potevamo chiudere tutto. Lì abbiamo fatto anche tamponi e visite infettivologiche per casi sospetti e adesso lo usiamo per i pazienti che hanno contratto il Covid». Una dei medici che si occupa del recall è Anna Carraro, rientrata dall'Umberto I in piena emergenza per dare il suo apporto ai colleghi in prima linea. «Siamo partiti dai pazienti più gravi spiega ancora la Lichtner e abbiamo visto finora 130 persone circa. Abbiamo iniziato con chi è stato ricoverato, a loro si aggiungono i familiari che magari sono risultati positivi ma non hanno avuto conseguenze serie. Via via faremo tutti gli altri».
Asintomatici esclusi, seguiti a distanza durante la pandemia e rimasti a casa in alcune occasioni senza alcuna necessità di cura. Ma il post Covid non è solo pneuomologia. Ad esempio c'è anche l'aspetto ematologico e «Valutiamo quello psicologico, per cui con i colleghi del dipartimento di salute mentale sia interno che universitario si cerca di capire la condizione di chi ha avuto il virus, lo stress e lo stato di fragilità post traumatica. Alcuni, per esempio, lamentano una intensa stanchezza ma i loro esami sono perfetti e dal punto di vista clinico non hanno sintomi, è una astenia non fisica sulla quale si interviene con il necessario sostegno».
Altro aspetto è quello cardiologico.
«I dati iniziali hanno mostrato un grosso coinvolgimento endoteliale, quindi vanno monitorati anche sotto questo aspetto».
Per non parlare di quello dermatologico o otorino.
«Ci sono in alcuni casi segni cutanei e lesioni ischemiche periferiche, tipo geloni ad esempio, mentre altri hanno lamentato ageusia, perdita del gusto e dell'olfatto. Questo in alcuni casi era un segno distintivo della malattia e oggi benché guariti ancora non recuperano i sensi».
Una patologia che sembra non lasciare scampo.
«E' sistemica, del resto le malattie infettive per loro natura portano a far interagire più professionisti perché colpiscono organi e apparati diversi».
Con la luce ormai chiara in fondo al tunnel, qual è stato il momento peggiore di questa emergenza? «I primi dieci giorni, concettualmente eravamo pronti, ci aspettavamo il primo caso, ma poi abbiamo toccato con mano quello che stava succedendo, ne arrivavano cinque o sei tutti insieme, era una situazione surreale alla quale non eravamo abituati, ci fermavamo tutti qui per capire cosa stesse accadendo».
E il migliore?
«Vedere che quello che stavamo facendo funzionava, i pazienti che rispondevano alle terapie, l'approccio non invasivo è stato vincente. Ma la gioia maggiore è quando siamo riusciti ad avere il tocilizumab, il farmaco usato per l'artrite per capirci, sembrava impossibile anche perché era necessario collegarsi a un orario preciso, arruolare i pazienti e a un certo punto si chiudeva il collegamento. Avere le scorte, inattese, mi ha reso felice».
Si parla molto di cura, a che punto siamo?
«Ci sono stati studi senza grosso rigore scientifico che purtroppo sono stati mandati alla stampa con troppa facilità. Abbiamo attuato i protocolli, modificati a seconda degli input che avevamo, analizzato i risultati in continuazione. Oggi possiamo dire che l'uso dell'eparina è consolidato perché previene il danno vascolare a livello polmonare. Poi siamo coinvolti nello studio dell'istituto oncologico di Napoli per il tocilizumab e nell'uso dell'antivirale rendesevir reso disponibile dall'Organizzazione mondiale della sanità, abbiamo trattato inizialmente due casi ora dieci».
E il vaccino?
«Ripeto, è una opportunità vicina. Si è fatto in settimane, in giorni addirittura, quello che di solito si fa in anni. E' un altro aspetto che scientificamente dovremo tenere in considerazione, ma ricordiamoci che gli studi devono essere certificati prima di essere resi noti, alcuni sono stati pubblicati e ritirati, voglio sottolinearlo - e soprattutto che l'emergenza non è finita».
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