Il 28 febbraio del 2020, la pandemia sta esplodendo. Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, scrive una mail alla Protezione Civile e alla segreteria del Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiede di non aggiungere nuovi chiusure, di non applicare la zona rossa ad Alzano e Nembro. Non solo. Si legge nella relazione del consulente della procura di Bergamo, il professor Andrea Crisanti: «La presentazione allegata alla mail di Fontana inizia nel capitolo “ciò che comprendiamo” con due affermazioni: a. il virus clinicamente non provoca problemi o comunque sono facilmente risolvibili; b. dalle prime evidenze ogni paziente con coronavirus trasmette il virus ad altre due persone (RO=2). Il presidente Fontana è quindi informato e al corrente della dinamica di trasmissione del virus». Eppure, Alzano Lombardo era già in crisi, ma soprattutto colpisce che si fosse consapevoli che l’indice di trasmissione era al di sopra di 2, dunque altissimo. La crescita esponenziale dei contagi da Covid era cominciata, ma si continuava a non vedere l’uragano in arrivo. La spinta dell’economia era troppo forte. Ascoltato dalla Guardia di finanza, il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, conferma: «Regione Lombardia non era favorevole all’istituzione di singole zone rosse, ma era favorevole a salvaguardare le attività essenziali. Era d’accordo con noi nel non istituire le zone rosse ma nel limitare le chiusure alle sole aziende non essenziali».
FRENATA
Un mese e mezzo dopo, quando esploderà la polemica sulla mancata zona rossa, in una chat che compare nelle carte dell’inchiesta, il governatore risponde con un «bingo!» a chi gli fa notare che il decreto dell’8 marzo prevede che non debba esserci sovrapposizione sulle misure di contenimento decise dal governo.
Andarono alla guerra disarmati, non c’erano mascherine Ffp2 e Ffp3, non erano stati addestrati a usarle, pronto soccorso e reparti furono riaperti dopo poche ore il primo caso positivo. Si dirà: normale non ci fossero mascherine, chi poteva immaginare l’arrivo dell’uragano Covid. Crisanti contesta questa tesi: il 5 gennaio 2020 (dopo i primissimi casi di Wuhan) l’Organizzazione mondiale della sanità invia la segnalazione del pericolo. Si legge nella relazione: «La comunicazione dell’Oms all’Italia non poteva essere più esplicita e tempestiva: segnalava casi di gravi infezioni respiratorie di origine sconosciuta e invitava a mettere in atto le misure previste in contrasto della diffusione dell’influenza». Secondo Crisanti, è vero che il Piano pandemico dell’Italia, risalente al 2006, avrebbe dovuto essere aggiornato nel 2017, ma applicarlo avrebbe comunque evitato «una situazione di vulnerabilità». Il Piano, per quanto vecchio e relativo all’influenza, disponeva di fare scorte di dispositivi di protezione, ad esempio. Invece, ciò che successe ad Alzano racconta uno degli errori giganteschi che fu commesso all’inizio: ragionare con vecchie categorie. Si cercavano contagiati solo tra chi aveva avuto contatti con la Cina.
CATASTROFE
Eppure, nel piccolo ospedale di Alzano Lombardo c’erano sei pazienti con ventilazione assistita, ma fino a quando non fu trovato il caso di Codogno nessuno pensò di fare il tampone o la Tac. Il mondo del 2020 però è quello dell’estrema globalizzazione, è molto più piccolo e collegato, soprattutto in un’area produttiva in cui i contatti con altri continenti sono inevitabili. Torniamo al 23 febbraio: si trovano i primi due positivi, ma secondo lo studio di Crisanti il virus è già presente in modo massiccio nel piccolo ospedale. I primi operatori sanitari sono stati contagiati il 10 febbraio, ma sono rimasti in servizio perché non lo sapevano; i primi positivi tra la popolazione risalgono all’ultima decade di gennaio (ovviamente allora non si sapeva) e già il 4 febbraio vi sono tre ricoverati con il Covid, solo che nessuno lo sa. Non c’è il link con la Cina. Il 23 febbraio gli operatori sanitari positivi (inconsapevoli), secondo lo studio, sono ormai 55. L’8 marzo vengono mandati i medici della Sanità militare per colmare i vuoti lasciati dal personale malato. Applicano subito nuove procedure. Insegnano al resto del personale a usare le mascherine e a isolare i positivi. I contagi diminuiscono così dell’86 per cento.
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