Il fondamento di tutto, però, mi sia consentito ricordarlo, è nel vecchio adagio «pacta sunt servanda» che vale in ogni circostanza e per tutti coloro che i trattati sottoscrivono. È questo che Di Maio avrebbe dovuto ricordare al commissario Gùnther Oettinger allorché questi ha pensato di intimorirci con la minaccia di sanzioni qualora l’Italia non versi il contributo necessario per tenere in vita il bilancio dell’Unione sancito dal Trattato. Nemmeno a dirlo, in questa faccenda di dare e avere l’Italia ha tutte le ragioni per fare la voce grossa. Non solo perché, quale Paese fondatore, da più tempo mettiamo mano al portafoglio rispetto, a esempio, alle nazioni Visegrad i cui versamenti tutti insieme non raggiungono il nostro contributo complessivo. Ma addirittura perché siamo in largo “credito” su quanto abbiamo finora effettivamente versato nelle casse di Bruxelles. Basti citare il periodo che va dal 2010 al 2016 (ultimi dati disponibili) durante il quale l’Italia, pur nelle difficoltà economiche a tutti note, ha partecipato al bilancio Ue con 113,2 miliardi e ha beneficiato di “ritorni” su progetti finanziati per 75,4 miliardi. In altre parole, nelle casse dell’Unione sono rimasti 37,7 miliardi che sono serviti a sostenere le varie missioni comunitarie quando non a favorire lo sviluppo dei partner più deboli. Non parrà superfluo ricordare che 37,7 miliardi è la somma dei maggiori contributi, rispetto al versato, ricevuti nello stesso periodo da Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Irlanda e Slovenia; è altresì il totale dei contributi finiti nelle casse di Spagna e Portogallo, sempre nello stesso periodo; rappresentando, infine, più del 50% dei finanziamenti in “sovrappiù” affluiti in Polonia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA