Mario Ajello
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Giustizia distorta/ Il pentimento di Di Pietro e quei danni non riparabili

Giustizia distorta/ Il pentimento di Di Pietro e quei danni non riparabili
di Mario Ajello
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Giovedì 17 Dicembre 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 11:23

C’è quasi da non crederci. Di Pietro che ripudia il dipietrismo. Il simbolo della giustizia usata come clava che, a furor di popolo, rinnega i suoi metodi. In un mea culpa non solo tardivo, ma non molto rispettoso delle sofferenze che certa giustizia ha procurato alle persone e dei guai culturali e politici che sono stati inflitti a una nazione. La quale ha applaudito all’ideologia manipulitista - che non ha coinciso perfettamente con l’opportuna e necessaria opera di sradicamento della corruzione esistente - senza curarsi delle storture che avrebbe innescato e che da decenni proseguono e chissà quando verranno finalmente risolte.

Insomma Di Pietro anti-dipietrista, ma il revisionismo era cominciato da un po’ (da quando disse: «Io ho fatto politica sulla paura che le manette incutono agli altri»), ha parlato così ieri ai microfoni di Radio Cusano: «Purtroppo, spesso, nel nostro Paese, chi sbaglia non paga, anche perché tante volte il magistrato parte con la montagna di accuse, per poi partorire il topolino». Ma non solo. Incalza l’irriconoscibile eroe dello strapotere togato come lavacro per l’intera società: «Io sono consapevole di avere creato dei dipietrini nella magistratura e me ne pento». 

Bene, bravo, bis: verrebbe da dire all’ex sceriffo del pool di Milano, idolatrato a suo tempo dalle masse - prima che come ogni moralizzatore venisse moralizzato dai fatti - ma anche dalla politica impaurita e codina, che in maniera più o meno trasversale dai primi anni ‘90 si è messa al rimorchio del giustizialismo per evitare guai e atteggiarsi a popolare e populista. 

E’ troppo facile però cavarsela dicendo, dopo tanti anni, ho sbagliato e scusatemi assai. Quando intanto un intero Paese, a causa del dipietrismo, dei suoi derivati e dei suoi precedenti, ha visto svilirsi il processo come baluardo garantistico per l’imputato, anche mediante l’uso abnorme della carcerazione preventiva, e crollare molti pilastri della cultura penale moderna e progressista.

I “dipietrini” di cui parla Di Pietro sono i giudici spettacolarizzanti e quelli politicizzati, sono le toghe che se ne infischiano di Montesquieu, sono tutti quelli - in forma di caricatura viene da pensare a Ingroia - che hanno platealmente tradito la massima di sir Francis Bacon (1561-1626), che fu filosofo e propugnatore del metodo scientifico ma anche consulente legale di Giacomo I Stuart: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». 
Invece hanno cercato di scalare il trono mediatico e politico in continuazione.

E se Tangentopoli ebbe il merito storico di scoperchiare un vasto sistema di corruzione, nello stesso tempo instillò in una parte minoritaria ma agguerrita della magistratura il germe dell’onnipotenza. Smantellare il sistema economico esistente, per crearne uno ex novo, su basi «giuste». 

Ecco il dipietrismo da cui Di Pietro prende le distanze. E rinnega anche la giustizia-spettacolo, quando l’ex pm diventato capo partito, ministro e ora pensionato e storico di se stesso stigmatizza le grandi montagne di inchieste strombazzate urbi et orbi, capaci soltanto di produrre «topolini». 

Nel rivedere la sua vicenda, Di Pietro dovrebbe entrare nei particolari però. Non limitarsi a due frasette buttate lì. Potrebbe srotolare con coraggio e umiltà, per consentire al Paese di non rivedere mai più quelle scene, il film anni ‘90 delle retate notturne, degli interrogatori a favore di telecamere, della gogna pubblica («Io a quello lo sfascio», disse di un personaggio atteso in tribunale), delle immagini da processo Enimont allestito come un rito purificatore. Nel quale si staglia come assoluto protagonista l’incalzante e infaticabile pm eroe, di fronte al quale sfilano nella veste di imputati o di semplici testimoni politici e potenti improvvisamente diventati remissivi, intimoriti, spaesati. 
Il populismo è nato come rivalsa penale e furia giudiziaria. E il dipietrismo lo ha nutrito da subito e lo ha fatto crescere al suono della presunzione di colpevolezza come nuovo mantra nazionale. 

Stiamo parlando insomma di una fase italiana lunga e non ancora conclusa. Perciò un mea culpa radiofonico non può bastare e il Di Pietro anti-dipietrista rischia di diventare l’ennesima impostura in un’Italia che ne ha viste troppe perché come diceva un garantista doc, Leonardo Sciascia, «siamo un Paese senza memoria e senza verità».

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