Alessandro Campi
Alessandro Campi

Veti incrociati/ Quella lotta per il Copasir e le poltrone di domani

di Alessandro Campi
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Venerdì 9 Aprile 2021, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 00:08

In politica, anche nei rapporti tra partiti alleati o amici, non esistono pasticci, malintesi o sgarbi involontari. Esistono sgarbi voluti, posizionamenti tattici, bilanciamenti d’interesse, scambi di favore e prove di forza. Vedi quel che sta accadendo, in questi giorni, tra Lega e Fratelli d’Italia sul caso Copasir.

Da un lato si tratta d’una delicata partita istituzionale. Per legge (la 124 del 2007) la presidenza del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, dotato di poteri di controllo e di funzioni (consultive e inquirenti) particolarmente incisivi, spetta ad un esponente dell’opposizione. Se ne comprende la ratio: verificare che gli apparati statali attivi nel campo dell’intelligence e della sicurezza nazionale operino nel rispetto della Costituzione, e vigilare affinché la loro azione non venga indirizzata e distorta secondo logiche politiche, sono compiti che per definizione non possono essere lasciati ad un rappresentante della maggioranza che sta al potere.

Fa dunque bene Giorgia Meloni a rivendicare quella poltrona al proprio partito, l’unico rimasto all’opposizione del governo in carica. E male hanno fatto i presidenti dei due rami del Parlamento allorché, chiamati a intervenire nella diatriba, invece di esercitare il loro potere d’indirizzo si sono limitati ad invocare un accordo tra partiti.

La qual cosa è esattamente quel che non si riesce a trovare da quasi due mesi. Così come sbaglia chi invoca, alla stregua di un precedente replicabile, il fatto che nel 2011 Massimo D’Alema rimase alla presidenza del Comitato nonostante il suo partito fosse nel frattempo entrato nella maggioranza parlamentare che, dopo la caduta di Berlusconi, sosteneva l’esecutivo presieduto da Mario Monti. 

La situazione odierna è infatti diversa rispetto ad allora su almeno due punti dirimenti. La Lega, che guida il Copasir dall’ottobre del 2019, quando era all’opposizione del governo giallo-rosso insieme all’intero centrodestra, è strada facendo entrata a far parte di una maggioranza e, con propri dicasteri, di un esecutivo certamente anomali, ma comunque caratterizzati da una formula politica, quella della “unità nazionale”; mentre quella di Monti era stata una soluzione meramente tecnica e come tale non prevedeva la presenza di ministri indicati da partiti. All’epoca, a dare continuità all’incarico a D’Alema intervenne inoltre un accordo sul nome di quest’ultimo tra tutte le forze presenti in Parlamento: condizione che oggi manca, visto l’atteggiamento rivendicativo (pienamente legittimo) assunto da Fratelli d’Italia. 

Ma lo scontro in corso non investe, con ogni evidenza, solo il rispetto delle procedure e delle regole, che pure qualcosa dovrebbero contare. Si tratta anche, forse soprattutto, di una partita politica: da un lato riguarda la competizione interna al centrodestra, sempre più accesa da quando la Meloni ha preso a correre nei sondaggi; dall’altro, gli scenari politici del prossimo futuro per come si stanno ridisegnando, anche a livello internazionale, sotto l’incalzare della crisi pandemica.

Si dice – anzi, s’insinua – che la Lega non voglia mollare la presidenza del Comitato perché teme l’uso politico che gli alleati-avversari di Fratelli d’Italia potrebbero farne (magari in combutta col Pd) con riferimento ad una vicenda sulla quale di recente si sono nuovamente accesi i riflettori: i rapporti politico-affaristici che Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini e fondatore dell’associazione Lombardia-Russia, avrebbe intrattenuto con uomini vicini al regime nazionalista russo.

In ballo ci sarebbe il riposizionamento, per così dire, politico-diplomatico della Lega in senso più europeo-atlantista dopo gli sbandamenti filo-putinisti degli anni passati. Che in parte è lo stesso problema che si trova ad affrontare il partito della Meloni. Quest’ultima, come è noto, ha fatto in Europa scelte diverse rispetto a Salvini: ha preferito affiliarsi al fronte nazional-conservatore invece che a quello nazional-populista.

Ma negli anni hanno condiviso la medesima retorica sovranista, divenuta sempre meno efficace come piattaforma ideologico-propagandistica specie dopo l’uscita di scena di Trump. 

Lo scenario politico globale è cambiato. Sanno perciò entrambi che per poter diventare (magari insieme) forze credibili di governo nel prossimo futuro non basta loro il consenso maggioritario degli elettori: serve anche un solido accreditamento internazionale.

E questo non perché siamo l’Italietta provinciale che cerca sempre all’estero i propri padrini o garanti, ma esattamente per la ragione opposta: essendo l’Italia un Paese inserito da decenni in un solido sistema d’alleanze internazionali, chiunque ambisca alla sua guida deve dimostrare di possedere a sua volta relazioni politiche solide con i gruppi dirigenti degli Stati che sono i nostri storici interlocutori e partner. I più importanti dei quali si trovano a Washington e Bruxelles, non al Cremlino o allo Zhongnanhai. 

Ora, per tessere una simile rete di rapporti non c’è dubbio che la guida del Copasir possa rappresentare uno strumento politico prezioso. Tanto più in una fase del mondo nella quale – anche a causa dell’emergenza sanitaria prodotta dalla pandemia – le tensioni tra Stati e tra blocchi di potenza si sono riacuiti. E sembra essersi riaccesa, come ai tempi della Guerra fredda, la corsa allo spionaggio internazionale e la competizione tra apparati di sicurezza. 

Una fase storica, quella che stiamo vivendo, dominata altresì da forme indirette e subdole di lotta politica, all’interno come all’esterno dei confini statali, spesso combattute a colpi di false notizie, depistaggi, operazioni di screditamento mediatico, inquinamento delle fonti, ecc. Nell’epoca delle notizie farlocche o falsificate ad arte, poter contare su notizie riservate e certificate, come quelle che – attraverso i servizi d’intelligence – giungono sistematicamente al Copasir, basta a spiegare perché la sua guida possa persino diventare oggetto di contesa.
Sullo sfondo della quale ci sono anche poste politiche più prosaiche ma non meno significative. La Lega alla fine potrà anche mollare il Copasir al partito della Meloni, ma in cambio vorrà ovviamente qualcosa di tangibile e di altrettanto importante. Ad esempio poter imporre i propri candidati, quanti più possibile, alle prossime elezioni amministrative, previste nel settembre-ottobre di quest’anno. Le candidature al momento sono ovunque in alto mare. Circolano anche divertenti retroscena, come quello relativo a Roma, dove c’è chi pensa che la riconferma della Raggi possa essere la soluzione alla quale segretamente pensano in molti, tanta è la paura che tutti i partiti hanno di doversi confrontare col governo amministrativo della Capitale. 

Resta il fatto che il voto in città come Milano, Bologna, Napoli, Torino e appunto Roma sarà un tornante decisivo della politica italiana nella prospettiva del dopo-Draghi. In vista di quest’appuntamento si dovranno per forza decidere quali saranno le nuove alleanze tra partiti (a sinistra) e come ridefinire quelle vecchie e oggi traballanti (a destra). E in funzione dei risultati che usciranno dalle urne si stabiliranno le leadership all’interno delle diverse coalizioni (Letta o Conte? Salvini o Meloni?) e si avrà una prefigurazione di quel che potrebbe accadere alle elezioni politiche del 2023, probabilmente tutt’altro che scontate nel loro esito a dispetto dei sondaggi odierni.

La politica è fatta così. Si litiga su una poltrona oggi (la presidenza del Copasir), ma in realtà si sta pensando a quelle che si potrebbero occupare domani, col rischio di non occuparne nessuna a tirare troppo la corda o se si sbagliano troppe mosse.

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