Francesco Grillo
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Obiettivo cobalto/ Il tesoro del Congo e le domande di Attanasio

di Francesco Grillo
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Lunedì 1 Marzo 2021, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:04

Non molti lo ricordano ma “Apocalypse Now”, uno dei film che, maggiormente, hanno segnato gli anni Ottanta, è ispirato a “Cuore di Tenebra”, il racconto della risalita del fiume Congo che fece Joseph Conrad alla fine dell’Ottocento. In quel libro, il narratore cerca il commerciante di avorio Kurtz e tratteggia un parallelismo improbabile e geniale tra il centro dell’Occidente – Londra – e il cuore dell’Africa. Oggi come allora, il Congo riesce ad essere, contemporaneamente, il luogo nel quale più da vicino si toccano un passato ancestrale ed una strana porta sul futuro. Il cobalto è, infatti, il minerale più importante per realizzare quella transizione ecologica e digitale che il mondo sta cercando e per più della metà le sue riserve sono nella terra della Repubblica Democratica del Congo. Forse, questo contesto può aiutare a capire meglio la straordinaria avventura di Luca Attanasio conclusasi qualche giorno fa nella giungla, al centro del continente più antico.

Duecento miliardi di dollari: questo è il valore ai prezzi attuali delle riserve di cobalto che il Congo – un Paese di cento milioni di abitanti e con una superficie superiore alla metà dell’intera Unione Europea – conserva nelle proprie miniere. In realtà, tuttavia, il patrimonio sul quale il popolo più povero della terra vive, potrebbe essere molto superiore. Il cobalto è, infatti, nonostante i tentativi della Tesla di ridurne la dipendenza, un materiale assolutamente indispensabile per le batterie ricaricabili di oggetti elettrici come i telefoni intelligenti, dei pacemaker cardiaci e delle automobili elettriche che, ormai, sembrano destinate a dover progressivamente soppiantare quelle alimentate da combustibili fossili. Il cobalto – proprio come le quotazioni della Tesla o delle Bitcoin – è, infatti, uno dei grandi trend finanziari che – al di là delle bolle speculative – possono cambiare il mondo: in soli due mesi dall’inizio dell’anno le sue quotazioni sono quasi raddoppiate alla borsa di Londra dove si scambiano metalli (Lme).

È il cobalto – dice qualcuno – il petrolio del XXI secolo e, tuttavia, sopra il petrolio del futuro si continua a morire di fame e a sgozzarsi con il machete. Nel cuore dell’Africa si trovano più facilmente proiettili che acqua potabile. La Repubblica Democratica del Congo è praticamente nelle tenebre da quando il re Leopoldo se ne proclamò proprietario e l’unico periodo di relativa pace, come spesso avviene da queste parti, fu assicurato per 30 anni da un dittatore. Mobutu riuscì, persino, a portare a Kinshasa il più famoso incontro della storia del pugilato, quello tra George Foreman e Muhammad Alì. Ma dalla sua morte, il Paese è ininterrottamente in uno stato di guerra (qualche anno fa fu invaso dagli eserciti di ben sei nazioni confinanti) e di guerra civile tra etnie diverse: una specie di tutti contro tutti alla ricerca del Santo Graal del cobalto, ma anche del coltan, del rame e dei diamanti.

Un po’ come succede nella lontana Libia dove avrebbero sufficiente petrolio per poter vivere bene e dove, invece, nessuno controlla ormai più niente.

Nel Congo, però, come nel resto dell’Africa, il ritiro dell’Europa (e degli Stati Uniti) ha funzionato come quando sparisce un gas; il suo posto, da tempo, è stato occupato dalla nuova superpotenza. La Cina, del resto, aveva già il vantaggio di controllare il 90% dell’offerta dei minerali rari che fanno girare l’economia verde e digitale ed è anche grazie ad un vantaggio di esperienza, che una multinazionale controlla da Zhejiang le miniere nel sud del Paese. Miserabili sono le condizioni di vita dei congolesi (il reddito medio non arriva a due dollari al giorno), ma ancora peggiori sono quelli dei lavoratori nelle miniere che chiamano scavatori (“Creuseurs” nella lingua dei primi colonizzatori): gli scavatori umani sono quasi tutti bambini e i loro corpi – nella narrazione che ne fanno gli avvocati che hanno lanciato azioni legali nelle corti federali degli Stati Uniti contro i giganti che usano il minerale nei processori – raccontano di indicibili sofferenze.

Rimane, tuttavia, la domanda che si poneva ieri, da queste colonne, Romano Prodi e che certamente si sarà posto Luca Attanasio mille volte. Cosa fare? Cosa possiamo fare per consolidare processi di sviluppo che ci sono anche se non stabili, e di democratizzazione che sono sempre fragili?

Una strada è quella dell’aiuto cercato, del resto, dei programmi del World Food Program che Attanasio accompagnava nel cuore della giungla: su questo fronte, tuttavia, sarebbe efficiente valorizzare, ancora di più, le organizzazioni non governative di medici e volontari che in Africa ci vanno anche a prescindere dalla protezione dei caschi blu. Certamente c’è anche l’assistenza tecnica, nessuno ne fa tanta come la Commissione Europea, a governi che cercano di costruire infrastrutture minime. E, tuttavia, ritengo che il vero banco di prova per l’Europa del futuro sia quello di trovare leve per una “messa in sicurezza” senza la quale l’energia di tanti può finire ingoiata dalle tenebre. Nessuno può pensare di ripetere il tentativo di esportare la democrazia finito male qualche anno fa nei deserti del Medio Oriente. Ma l’Europa deve poter affiancare i governi più coraggiosi anche con i propri apparati di polizia e di intelligence; e dobbiamo, invece, isolare commercialmente quelli che, invece, si rendono responsabili di abusi su larga scala.

Il futuro delle nostre sicurezze e delle carte dei diritti umani non si costruisce solo con le retoriche e le conferenze più o meno inutili. Difendere valori e noi stessi significa prendersi rischi ed assumere decisioni. Credo che solo così si possa onorare il coraggio di chi rischia la vita nei luoghi, dove la vita è nata. In fondo, è nelle ore più buie che si riescono a immaginare prospettive nuove.
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