Francesco Grillo
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La discontinuità/ Ridisegnare lo Stato: nuovo patto con i cittadini

di Francesco Grillo
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Giovedì 4 Giugno 2020, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 08:33
Il giorno di cui è stato appena celebrato l’anniversario, non è solo quello del voto con il quale nasce la Repubblica Italiana. Quel giorno fu, anche, eletta l’Assemblea Costituente che si assunse la responsabilità storica di dare forme allo Stato Italiano e sostanza a quella che fu una delle migliori Costituzioni del mondo. 

Oggi, a settantaquattro anni di distanza, la proposta – rispetto ad un’emergenza globale che ha reso evidente quanto siano vulnerabili assetti istituzionali pensati per un secolo diverso – dovrebbe essere quella di un nuovo momento costituente. Con un approccio diverso da quello che periodicamente fu tentato negli anni scorsi e che renda possibile portare nel ventunesimo secolo un’organizzazione che - a partire dal ruolo dell’amministrazione centrale, rispetto alle Regioni e agli Enti locali - non può più reggere l’impatto di un tempo così nuovo. 

Sono due i motivi per i quali le forme della Repubblica vanno ripensate in maniera organica (cercando di evitare gli errori di impostazione che spezzarono la parabola politica di Matteo Renzi). Il primo è tutto legato alle anomalie di un Paese che, nel tempo, è diventato sempre meno normale, schiacciato com’è da una burocrazia che neppure i burocrati riescono più a controllare. Il secondo è, invece, relativo alla mutazione che le tecnologie stanno producendo: nel ventunesimo secolo è la stessa idea di fissare – con una Costituzione – forme rigide destinate a durare decenni che viene messa in discussione. 

I due fenomeni si intrecciano in un groviglio che un Parlamento eletto da leggi elettorali contestate (e che, invece, dovrebbero avere rango costituzionale) e retto da maggioranze parziali, non è in grado di districare. Ed è per questo motivo che deve ritornare e, stavolta, con idee più pragmatiche, l’idea che debba esserci un’istituzione inclusiva, intelligente. Con il tempo e l’unico obiettivo di pensare ad una riforma complessiva del metodo che l’Italia si da per sfuggire ad un’obsolescenza tecnologica che minaccia anche le altre democrazie liberali
Sono, del resto, proprio il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e il ministro degli Affari Regionali, Francesco Boccia, ad aver fatto, in queste settimane, esperienza piena del fatto che questo Paese è vicino ad un punto che è tecnicamente di non ritorno. In un momento nel quale bisognava assumere decisioni di fondamentale importanza e con grande velocità, si sono ritrovati, ogni giorno, a dover mediare tra opinioni scientifiche, interessi locali e un ginepraio di leggi contraddittorie. 

Servono a poco centinaia di esperti, se – alla fine – le loro competenze devono passare per lo strettissimo collo di bottiglia di un Decreto che – di fronte alle sfide della prima guerra mondiale dell’era internet - è costretto a partire da premesse legislative chilometriche. A dettare regole che devono valere su un intero, diversissimo territorio nazionale. A usare semantiche incomprensibili ma capaci di resistere ad un Tribunale Amministrativo. 
La scelta, poi, di condividere con le Regioni (ma non con il Parlamento) tutte le decisioni può aver prodotto, senz’altro, “mostri”: come quello di essere stati costretti ad inseguire - dall’inizio fino alla fine – un’unica politica di chiusura e poi di riapertura che, inevitabilmente, è finita con l’essere attratta - come da un enorme buco nero - dall’esigenza della Regione che in questa vicenda era, contemporaneamente, la più grande e la più colpita.

In realtà, la pandemia è solo il potente pettine che ha scoperto nodi già conosciuti. Non ha senso aver costruito Regioni – la Lombardia, appunto - grandi come uno Stato e che, però, non hanno né l’economia di scala di un’amministrazione centrale e neppure il vantaggio di poter meglio sentire i cittadini. Ed altre (ce ne sono, almeno, tre) che sono, invece, più piccole di quanto non lo fosse, in media, una delle province che abbiamo abolito con una riforma frettolosa e non ancora completa. Sembrano, poi, senza la dimensione minima per poter garantire servizi pubblici essenziali, metà degli ottomila comuni italiani che hanno meno di 2.000 abitanti e che, pure, in questi mesi, sono stati investiti da compiti delicatissimi (e nuovi) come quello di far arrivare beni primari e redditi di emergenza. 

È evidente che in questa situazione ci sono cittadini che si ritrovano a dover fare i conti con istituzioni che esprimono volontà diverse (comica rappresentazione se ne è avuta con i ristoranti a Reggio Calabria che hanno dovuto fare il conto di tre diverse ordinanze per capire se potevano riaprire) ed altri che si sentono abbandonati. Tutti alle prese con regole che, inevitabilmente, saranno troppo permissive per poter contenere rischi in alcune situazioni (in Lombardia o in Piemonte) e che in altre possono far perdere clamorose opportunità (come è forse successo con il turismo in Sicilia e in Sardegna che avrebbero potuto utilizzare il periodo di chiusura per costruire vantaggi competitivi). 

La stessa idea di semplificare la burocrazia diventa, infine, un ossimoro se non si fa i conti con l’enorme quantità di atti normativi in vigore (secondo il Poligrafico di Stato che cura la Gazzetta Ufficiale sono 111 mila). Ciò non può che abbassare la comprensibilità degli atti di un Governo, per non parlare della sua capacità di rispondere a situazioni complesse. 
Un luogo di riflessione non schiacciato sull’emergenza servirebbe, dunque, a questo. Trovare i meccanismi per compattare riforme che, da tempo, procedono per aggiustamenti incrementali (e che spesso finiscono con il produrre nuove incertezze). Riorganizzare il patto tra Stato e cittadini attorno a Comuni meno numerosi e con più risorse; città metropolitane capaci di rappresentarsi a livello nazionale ed europeo e dipartimenti in grado di dare forza a territori meno densamente popolati; Regioni ridisegnate come progetti tra enti locali che scelgono liberamente di collaborare su progetti di maggiore scala e non più come gestori di competenze permanentemente trasferite dallo Stato; un Governo centrale che trovi nuova legittimità nella capacità di trasformare enormi quantità di informazioni in conoscenza e coordinamento di una comunità intera.

Una costituente da ventunesimo secolo dovrà, in definitiva, porsi un problema difficile e affascinante, tanto quanto quella votata un anno dopo la fine dell’ultima guerra: costruire istituzioni sufficientemente flessibili da adattarsi a trasformazioni che hanno esiti ancora non conosciuti, rafforzando valori che sono universali.
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