I soliti italiani che non rispettano le leggi? Macché: le rispettiamo pure quando le leggi non ci sono più. La fine dell’obbligo della mascherina doveva essere la liberazione da un giogo, la celebrazione dell’indipendenza da un vincolo, da una seccatura e da una «museruola» (così senza un briciolo di meritatissima riconoscenza l’hanno chiamata i No Vax e gli scriteriati) e s’è rivelata invece il segno di quanto la pandemia ci ha in parte cambiato in meglio. Rendendoci più attenti a noi stessi e agli altri, resistendo in un’abitudine e in una norma di sicurezza - non costa niente tenersi, e usandola in caso di bisogno, una chirurgica ma anche una Ffp2 - che non essendo richiesta dall’alto è diventata un atto di volontarismo civico dal basso. Una forma di spontaneismo della responsabilità e un mezzo di partecipazione attiva, e non indotta, al buon governo della nostra salute.
La resilienza della mascherina si spiega così: meglio tenerla perché non si sa mai, non la tolgo perché il virus può tornare (state vedendo che cosa accade in Cina dove si ripete il lockdown?), ci sono affezionato/a non perché è diventata una coperta di Linus e perché noi italiani siamo un popolo abitudinario e ormai assuefatto ma perché gli scienziati continuano a dirci di stare attenti e io della scienza tendo a fidarmi.
La mascherina che resta alta al di là delle leggi, che pure dovevano dare un segno di ritorno alla normalità in presenza di contagi in forte discesa, è anche la smentita quotidiana (chissà quanto durerà? Speriamo non poco o comunque quanto serve) di tutte le panzane dei presunti filosofi alternativi e dei populisti da talk show o da pseudo-pensatoio accademico, secondo cui ha dominato in questi due anni in Italia una “dittatura sanitaria”, terribile e oppressiva, un totalitarismo da Stato Etico (ma sanno, questi sapientoni, che cosa significa?), contro cui gli italiani non vedevano l’ora di ribellarsi strappando dal viso la “museruola”.
E capita di entrare nei luoghi pubblici, dove non esiste più l’obbligo, e vedere gente in mascherina che dice: «Ci tengo alla nuova libertà dal virus, e per garantirla sto bene attento a che il virus non torni». Poi ci si cala la mascherina, ci si beve il cappuccino e la si indossa di nuovo. Non più per (giusta) imposizione ma per (libera) scelta. Il meglio averla che non averla è il mood di tanti. E la mascherina appesa al collo, pronta ad essere alzata al momento del bisogno, è una componente del look che non infastidisce chi la porta e chi la osserva. Oltrettuto, ci sono i telefonini che fanno il riconoscimento facciale e quindi no problem.
L’italiano - diceva Ugo Tognazzi - è un «pollo ruspante, che vive disordinatamente e senza criterio». Ebbene questo cliché, pur senza essere diventati o voler diventare polli d’allevamento, sembra superato. E la riprova della svolta sta in questo pezzo di stoffa che in molti abbiamo deciso di conservare, pur senza farne un feticcio o una fissazione e modulandolo secondo necessità. Se l’Italia è la patria delle piccole sovversioni quotidiane (al semaforo rosso non si fermano tutti), questa della mascherina è una sovversione a fin di bene, una virtuosità auto-prodotta e non inflitta. Che fa ben sperare.