Si profila un autunno «complesso», ha detto Mario Draghi, aggiungendo così un nuovo aggettivo ai tanti distribuiti negli anni per questa stagione a suo tempo classificata come “autunno caldo” per le lotte operaie che la segnarono. Negli Stati Uniti, la Federal Reserve, continuando il percorso per la normalizzazione della politica monetaria, ha nuovamente aumentato i tassi di riferimento di 75 punti base portandoli al 2,25-2,50% in presenza di un’inflazione che a giugno ha registrato il 9,1%. In questo modo si intende reagire agli squilibri tra domanda e offerta e ai rincari dei prezzi dell’energia e dei beni alimentari. Il presidente Jerome Powell non sembra preoccupato dei rischi di recessione, di là della configurazione tecnica di quest’ultima, innanzitutto per la buona situazione del mercato del lavoro, tra l’altro essendovi state assunzioni nella prima metà dell’anno di 2,7 milioni di persone (tasso di disoccupazione al 3,6%) che il presidente giudica incompatibili con una recessione sostanziale. Ormai le principali banche centrali, che pure hanno gravemente tardato nell’assumere per tempo una strategia di anticipo, sono determinate a contrastare l’aumento dei prezzi, come ha dimostrato anche la Bce con il recente incremento di 50 punti base a cui seguiranno molto probabilmente ulteriori aumenti a settembre, come accadrà pure per la Fed.
Tra gli osservatori e gli esperti vi è chi sostiene che, a questo punto, sarebbe preferibile il ricorso alla leva delle imposte, anziché a quella dei tassi. Dovrebbe comunque essere assodato che la politica monetaria, con le sue misure convenzionali e no, non può a lungo svolgere un’azione di supplenza della politica economica e di finanza pubblica: vale per gli Stati Uniti e vale per l’Europa.
Il governo della moneta, pur nella sua autonomia, deve infatti raccordarsi con la politica economica: l’immagine della prima come una corda, utile e necessaria per stringere ma inadatta per dare impulsi, chiarisce bene poteri e limiti della politica monetaria.
Tornando alla Fed, la sua decisione avrà ripercussioni, benché non automatiche, pure in Europa dove, come accennato, si sta seguendo un percorso simile, anche se le cause sono diverse, nel Vecchio Continente agendo l’impennata dei prezzi dei prodotti energetici e alimentari - una condizione ben più rilevante di quella osservata negli Usa - nonché un ancora non adeguato funzionamento delle catene di valore.
Ciò vale, in particolare, per l’Italia dopo la revisione delle stime dell’aumento del Pil portato al 3 e allo 0,7 per cento, nell’ordine, per quest’anno e il prossimo. Draghi ha affermato che non saranno di certo dimenticati i lavoratori, i pensionati e le imprese. Pur nel ridimensionamento dei poteri propri della fase del disbrigo degli affari correnti, non poco può pur sempre fare un governo in considerazione anche delle situazioni di necessità e urgenza. Il prossimo decreto Aiuti si dovrà qualificare per il modo in cui corrisponderà a urgenze e disagi che non tollerano rinvii e, al tempo stesso, inizierà a incidere in via strutturale come nel caso della decontribuzione riguardante salari e stipendi.
Vi è spazio, pur nel rispetto delle norme costituzionali, per un’amministrazione che non sia quella ordinaria “vecchio stile”, fino alle operazioni post-elettorali, e che prepari la base per le future scelte. Ciò rafforza l’esigenza che le forze politiche che affrontano la campagna elettorale presentino agli elettori programmi chiari, realistici, razionali, che facciano i conti con i vincoli interni, europei e internazionali: un’esigenza sempre valida, ma oggi rafforzata dalla crisi che stiamo subendo e dai rischi incombenti.
Si potrebbe dire loro Hic Rhodus, hic salta, almeno per fermarci all’aggettivo «complesso» del prossimo autunno.