Alessandro Campi
Alessandro Campi

L’ansia indotta/A chi giova la società dell’allarme permanente

di Alessandro Campi
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Domenica 30 Luglio 2023, 23:55 - Ultimo aggiornamento: 31 Luglio, 20:25

Quello che ci aspetta ogni mattina al risveglio, non solo in Italia, è ormai un “memento mori” collettivo: martellante, pervasivo, inesorabile e appunto quotidiano. Ci viene proposto da ogni possibile fonte - quotidiani, social, televisione, mondo politico e intellettuale - un racconto che non lascia speranze per il futuro. Siamo, tutti insieme, l’ultima generazione, ad un passo dalla catastrofe, peggio, dall’estinzione: «Ricordatevi che state per morire».
A meno che… non cambi davvero tutto, al più presto: oggi, non domani. Il nostro modo di pensare. Il nostro modo di agire. Il nostro modo di produrre e consumare. La scala di valori sin qui adottata. Il linguaggio sin qui utilizzato.

Tutte quelle cose anacronistiche e pericolose nelle quali abbiamo creduto per secoli: famiglia, religione, nazione, la distinzione dei generi, la diversità delle culture, il lavoro che nasce dalla fatica fisica e dal dominio della natura… 
Insomma, ci servono un’altra etica, un’altra economia, un diverso sistema sociale. In parole povere, una diversa umanità, un altro mondo, magari - per i più visionari - un mondo senza umanità.

E che ci vuole?
Il pianeta d’altronde è una palla di fuoco, ovunque incendi, gente che muore dal troppo caldo, cataclismi, inondazioni; fra vent’anni, forse tra dieci, sarà tutto finito. 

Ai confini orientali dell’Europa, o magari nella lontana Corea, si è a un passo dall’incidente nucleare, nel caso tutto finirebbe in poche ore. La pandemia globale, solo apparentemente sotto controllo, potrebbe riscoppiare da un momento all’altro e a quel punto anche vaccinarsi sarebbe forse inutile. E vuoi che prima o poi non cada sulla terra un asteroide e allora faremo, senza poterlo raccontare a nessuno, la fine dei dinosauri.


Ma non basta. La disoccupazione avanza, le fonti energetiche tradizionali non sono più utilizzabili, quelle alternative non bastano, l’acqua potabile è sempre meno, i ghiacciai si sciolgono, il mare aumenta di temperatura. Cereali e altri beni di prima necessità cominciano a scarseggiare mentre l’inflazione galoppa erodendo drammaticamente salari e risparmi. Gli immigrati in fuga dalla miseria arrivano a migliaia ogni giorno nelle zone ricche del mondo e presto non ci sarà posto per tutti. Non nascono più bambini, chi manterrà una popolazione sempre più vecchia? Lo Stato - per scelta colposa o forse, più semplicemente, per mancanza di risorse - non può più garantire i servizi e le prestazioni sociali di un tempo: arriveremo quanto prima alla lotta di “tutti contro tutti”, con i forti che avranno naturalmente la meglio sui deboli.


Come se non bastasse questo scenario storico cupo, abbiamo in Italia un governo accusato di togliere ai poveri per dare ai ricchi, città invase da orde di turisti che sporcano e distruggono ogni cosa (dove aver detto per decenni che il turismo, per definizione di massa, è una risorsa adesso scopriamo che è un problema), mentre Alain Elkann - dramma nel dramma - non può nemmeno più andare a Foggia in treno senza essere disturbato da bande di giovinastri incolti e volgari.


Ammettiamolo, anche il serafico Buddha soffrirebbe d’ansia, perderebbe il sonno la notte e farebbe uso massiccio di ansiolitici a vivere in una società che - volendo darle un’etichetta - si potrebbe definire dell’allarme permanente.

Ogni giorno, un passo verso il baratro. Con la popolazione però divisa in due: quelli consapevoli del disastro che ci aspetta e quelli che colpevolmente fanno finta di nulla pur sapendo come stanno esattamente le cose. Anche se cambia poco: alla fine viaggiamo tutti sullo stesso transatlantico destinato prima poi ad affondare, salvo un cambio drastico e immediato di rotta. Ma chi è il capitano che può darci l’ordine giusto?


Intendiamoci, siamo davvero - come mostra la cronaca degli ultimi anni - in una congiuntura del mondo particolare, difficile e per molti versi unica, tra conflitti armati, crisi economica e minacce all’ambiente di vario tipo. I problemi grossolanamente elencati, tranne lo psicodramma ferroviario di Elkann, sono tutti terribilmente seri e di non facile soluzione. La questione che si vuole segnalare è il modo con cui essi vengono presentati e affrontati in particolare dal sistema globale dell’informazione. 


Appunto, l’informazione, cioè la narrazione puntuale e pacata dei fatti, il tentativo di spiegare e far capire quel che accade, i problemi e le possibili soluzioni razionali, che pare ormai sostituita da un mix di sensazionalismo e propaganda, di terrorismo psicologico e mezze verità che spesso risultano essere mezze bugie. Ma siamo sicuri che agitare scenari da incubo e sollecitare timori ancestrali (primo fra tutti quello della morte imminente) sia il modo migliore per mettere le persone dinnanzi alle proprie responsabilità? Davvero la paura quotidianamente instillata rappresenta una forma efficace di pedagogia di massa?


C’è chi usa l’allarmismo per creare audience e allargare le vendite (ma senza grandi risultati). Chi per assecondare i partigiani del proprio campo e bastonare gli avversari. Chi perché convinto, magari in buona fede, che sia l’unico modo per svegliare le coscienze. Ma il risultato, alla fine, è la creazione di uno stato d’animo collettivo prossimo all’angoscia, che sfocia per alcuni nella rassegnazione, per altri nella rabbia. Si oscilla ormai, quotidianamente, tra impotenza e affanno, nella convinzione, sempre più diffusa, che sopravvivere è ormai il massimo che ognuno di noi può fare.


Se, come si dice, l’obiettivo comune è costruire un mondo migliore dell’attuale, le modalità che abbiamo scelto per raccontare e rappresentare la nostra condizione odierna difficilmente ci aiuterà a raggiungerlo.

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