L’intervento sulle pensioni deve attendere. Il “tesoretto” di 3 miliardi - derivante dalla differenza indicata nel Documento di economia e finanza (Def) per il 2023 tra il deficit tendenziale del 4,35% e il deficit programmatico del 4,5% - è infatti destinato alla riduzione del cuneo fiscale per i redditi bassi, in aggiunta ai 5 miliardi previsti dall’ultima legge di Bilancio. Quota 41 non è insomma alle viste ed è probabile che vi sarà una proroga di Quota 103, cioè 62 anni di età anagrafica e 41 anni di versamenti. Va data priorità al sostegno a famiglie e imprese, è la motivazione del governo: difficile muovere critiche a una tale scelta. Né si può trascurare l’obiezione di chi, in nome di una giustizia intergenerazionale, ritiene eccessivo favorire il pensionamento con 41 anni di anzianità lavorativa (ad eccezione ovviamente dell’impiego in attività particolarmente usuranti). Appare tuttavia chiaro che due obiettivi ugualmente validi, pensioni più adeguate e salari più in linea con le necessità familiari, benché scaglionabili, finiscono per collidere mentre aumenta la speranza di vita media (82,7 anni) e crollano le nascite, ponendo una questione demografica cruciale che giustamente il governo si ripromette di affrontare.
Si pone così l’interrogativo sull’opportunità dell’accantonamento temporaneo della questione pensionistica, per non parlare del circuito anomalo tra blocco della rivalutazione degli assegni oltre 2.100 euro lordi e utilizzo delle relative risorse per le diverse “quote” di collocamento a riposo: come dire, pensionati chiamati ad agevolare l’andata in pensione di lavoratori attivi. È dal governo Amato del 1992, seguito nel 1995 da più consistenti misure varate dal governo Dini, che si interviene sul sistema pensionistico e puntualmente, dopo qualche anno, si ritorna ad auspicare una riforma integrale che sopravviene solo a pezzi e bocconi, fino alla legge Fornero variamente giudicata facendo astrazione, però, dalla drammaticità di quella fase.
Si tratterebbe, questa sì, di una grande riforma, mossa dall’intento di prevenire la necessità di tamponare le conseguenze dell’alleggerimento degli oneri per questa o quella parte del welfare senza un chiaro disegno complessivo. Sarebbe un’operazione che mira a ridurre le diseguaglianze evitando l’effetto cosiddetto della “barba del diavolo”, che viene rasa in una guancia e ricompare nell’altra, e così di seguito. Il confronto necessario con le parti sociali andrebbe orientato in questa direzione, non certo per smobilizzare il welfare in tutte le sue componenti, ma per razionalizzarlo e rafforzarlo, tenendo conto delle trasformazioni intervenute nei decenni e prendendo di petto il tema delle necessarie risorse e dei contributi, innanzitutto delle imposte e tasse. L’altro pilastro è dato dalla questione demografica, convinti come si deve essere che il bradisismo economico, politico e sociale degli Stati storicamente è stato innescato dalla riduzione progressiva della popolazione fino alla decadenza anche degli imperi.