Maire, il presidente Fabrizio Di Amato: «Svolta green solo se i prezzi e gli impatti sono sostenibili»

Il presidente e fondatore di Maire: «Siamo un esempio di come si può cambiare il modello di produzione senza alzare i costi dei beni finali»

Maire, il presidente Fabrizio Di Amato: «Svolta green solo se i prezzi e gli impatti sono sostenibili»
di Giacomo Andreoli
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Venerdì 22 Dicembre 2023, 11:17

La svolta green si può compiere davvero se sono sostenibili i prezzi e se c’è un impatto sociale positivo sui territori. Ma dobbiamo convincere le imprese che la sostenibilità non è un problema, è un’opportunità: possiamo invertire la rotta e dare risposte ai giovani, seguendo il modello della neutralità tecnologica». Fabrizio Di Amato, presidente del gruppo ingegneristico di soluzioni per la transizione energetica Maire, è fiducioso: sulla sostenibilità il 2024 può essere l’anno giusto in Italia e nel mondo. Di Amato ha partecipato alla Cop28, quell’assemblea Onu a Dubai che ha per la prima volta messo nero su bianco la necessità di una transizione verso la fine dei combustibili fossili, seppur senza obblighi precisi per gli Stati del mondo.
Presidente, il mondo si interroga sui risultati della Cop28. Voi avete portato gli studi e le tecnologie hi-tech di Maire sulla svolta sostenibile. Non c’è più tempo: dopo tanti anni di parole spese, dal 2024 il mondo pulito e sicuro per le nuove generazioni va costruito davvero. Come fare?
«La storia ci ha insegnato che le tecnologie hanno reso possibile le varie trasformazioni industriali. Il fossile è stato il motore per lo sviluppo dal dopoguerra in Italia e in Europa. Ma ora la necessità ambientale è imprescindibile: la transizione energetica va fatta. Quindi io dico: sfruttiamo la tecnologia per questo nuovo passaggio d’epoca. Voglio spronare gli imprenditori e i manager che guidano le aziende a vedere la sostenibilità non come un problema, ma come un’opportunità. Noi di Maire ci siamo dati come obiettivo la neutralità carbonica nel 2030 per le emissioni dirette, ma ho dato l’incarico di revisionare il piano per verificare se possiamo fare prima, di più e meglio. C’è un tema di evoluzione aziendale: come sta facendo Maire, possiamo fare gli stessi prodotti del passato sostituendo il fossile con fonti sostenibili, senza cambiare destinazione e qualità del prodotto finale. Vale per le plastiche come per i fertilizzanti ed altri prodotti chimici, per cui si può partire dall’economia circolare».
Cambiare il modello industriale comporta un onere maggiore per la produzione, che poi si può riflettere sul costo finale del prodotto?
«Noi stiamo lavorando tenendo sempre conto di tre fattori: la fattibilità economica, la sostenibilità ambientale e l’impatto sociale positivo sui territori. In questo modo, ad esempio con il riciclo, siamo in grado di garantire gli stessi prezzi dei prodotti che prima venivano realizzati con fonti fossili. Comunque se si fa un investimento, all’inizio spendendo anche qualcosa in più, nella mia esperienza alla fine c’è sempre un forte ritorno economico». 
Si parla tanto di idrogeno verde: a che punto siamo con questa tecnologia?
«L’idrogeno del tutto green è ancora un po’ costoso e sopra la media dei prezzi. Ma ci sono forme ibride che permettono di ridurre sostanzialmente l’inquinamento. Aggiungo che stanno crescendo anche le tecnologie di cattura della CO2: si possono mantenere alcuni impianti fossili, stoccando l’anidride carbonica in giacimenti esausti. A quel punto quelle molecole di CO2 si possono riusare, anche facendole interagire con l’idrogeno per produrre e-fuels. Possiamo fare le cose giuste con i giusti tempi».
Si intende questo con “neutralità tecnologica” applicata alla transizione energetica? Non è una nuova forma di greenwashing?
«È proprio questo e non c’entra con il greenwashing. Bisogna investire su quello che è più all’avanguardia e ristrutturare i modelli passati, guardando al futuro. Serve porre degli obiettivi generali, senza sconti, poi però ogni Paese deve raggiungerli secondo le sue caratteristiche. L’Italia ad esempio ha fatto bene a lottare in Europa per escludere alcuni motori endotermici dai divieti sulla vendita delle auto a benzina e diesel dal 2035. Non abbiamo perso la battaglia, perché è passato il principio che si considereranno i combustibili in linea con l’idea della neutralità tecnologica. Sono fiducioso rispetto a questo passaggio, nonostante l’apparente “no” ai biocarburanti». 
Anche il nucleare rientra in questa strategia, nonostante l’inquinamento, seppur ridotto, e il pericolo delle scorie?
«Sì, infatti è stato riconosciuto dall’Ue come fonte sostenibile da inserire nella transizione». 
E i rifiuti? Come si trasformano in una opportunità? 
«L’Italia produce 16 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno. Sono quelli cosiddetti indifferenziati, cioè non riciclabili, che vanno nelle discariche oppure vengono portati all’estero. Noi abbiamo sviluppato molti progetti per il loro riuso. Due progetti avanzati in particolare nel Lazio e in Lombardia. Il rifiuto, tramite la gassificazione che riduce le emissioni, può essere il petrolio del terzo millennio ed è utilizzabile anche per l’idrogeno circolare a prezzi concorrenziali: ne potremmo produrre 1,6 milioni di tonnellate, il 20% di quello che fa l’Europa».
L’Italia può essere un hub di eccellenza nella transizione ecologica o siamo troppo indietro, ad esempio sulle auto elettriche?
Noi abbiamo un grande vantaggio: non abbiamo molte risorse fossili, quindi non abbiamo nemmeno un grande problema di riconversione. Anche per questo sono fiducioso sul rispetto degli obiettivi di transizione energetica contenuti nel Pnrr. Poi certo, sull’auto elettrica come tutta Europa abbiamo un problema chiamato batterie e ci manca una rete capillare di ricarica. Tuttavia con l’idrogeno circolare potremmo mandare avanti le auto elettriche ricaricate a idrogeno, attraverso le celle a combustibile. Abbiamo poi delle competenze di eccellenza che servono i mercati nazionali e internazionali, grazie a un’ingegneria in grado di realizzare opere complesse. Nonostante abbiamo esportato molto in tal senso, su questo la percezione di qualità riconosciuta in tutto il mondo è meno evidente rispetto a settori come il fashion e il cibo: possiamo fare di più».
Come è messo il nostro Paese sulla formazione dei nuovi talenti dell’ingegneria e della chimica?
«Abbiamo presentato proprio alla Cop28 uno studio con Ipsos: le stime parlano di 14 milioni di persone che andranno formate per diventare esperti della transizione. La tecnologia viene percepita come secondo fattore per importanza nel realizzare la transizione. C’è una grande opportunità di lavoro e bisogna stimolare l’industria affinché aiuti le università. Noi lo stiamo facendo, con relazioni con il Politecnico di Milano, la Luiss e la Sapienza, ma anche nel Sud Italia, ad esempio con iniziative in Campania, Sicilia e Puglia. Dobbiamo andare a prendere le persone dove si formano. Per noi è uno sprint in linea con il piano strategico per i prossimi dieci anni, che prevede di raddoppiare il numero di esperti coinvolti nella transizione green».
Questo sforzo dovrebbe essere facilitato di più dalla politica?
«Ovviamente. Si sta già lavorando sul modello delle Accademy specializzate. L’obiettivo è formare i nuovi tecnici per la transizione; ma anche creare con le università l’ingegnere del terzo millennio, che non può non essere anche un umanista, attento sia ai fattori tecnici, che a quelli economici, sociali e filosofici.

Noi abbiamo cominciato nel nostro piccolo a investire su questo modello, ma certo a livello macro bisogna pensare a tante scuole e corsi post-diploma e post-laurea».

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