Pensioni, come cambiano con il nuovo "coefficiente di trasformazione": ricalcolo in base a speranza di vita, impiego, Regione dove si vive

Lo studio dell’Inps sul tavolo del governo: per l’ente, il coefficiente di trasformazione uguale per tutti è «un’ingiustizia» da sanare

Pensioni, come cambiano con il nuovo "coefficiente di trasformazione": ricalcolo in base a speranza di vita, impiego, Regione dove si vive
di Andrea Bassi
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Giovedì 21 Settembre 2023, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 15:59

Il dossier, c’è da starne certi, arriverà sul tavolo della riforma previdenziale alla quale lavora il governo. Anche perché la firma in calce è quella dell’Inps, l’Istituto nazionale di previdenza. Il tema affrontato è complesso. E soprattutto delicato. Non solo perché si parla di pensioni, ma soprattutto perché quello che si mette in evidenza è uno “squilibrio”, che l’Inps definisce come una «ingiustizia» del sistema. Che dunque andrebbe corretta. Di cosa si tratta? Ci sono categorie di lavoratori che, arrivati a 67 anni, una volta andati in pensione, vivono mediamente più a lungo di altre. E lo stesso vale per i pensionati che risiedono in determinate Regioni. Il sistema con il quale viene calcolato l’assegno che un pensionato riceve, però, non tiene assolutamente conto di queste diversità. Il cosiddetto «coefficiente di trasformazione», il numero che “trasforma” in assegno i contributi versati durante tutta la vita lavorativa è uguale per tutti. Come detto per l’Inps è un’iniquità del sistema. Vediamo perché con qualche esempio. 

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I casi

Prendiamo la gestione Inpdai, quella che paga le pensioni ai dirigenti, oppure il Fondo volo, dove ci sono gli ex piloti d’aereo o gli assistenti e le hostess.

Mediamente, secondo i dati dell’Inps, chi è in queste gestioni previdenziali, riceve la pensione per 19,7 anni dopo il pensionamento. Un pensionato che si trova invece nel fondo dei lavoratori dipendenti, dove ci sono gli operai e gli impiegati, riceve in media, una volta lasciato il lavoro, l’assegno pensionistico per 17,6 anni. Due anni di pensione in meno, insomma. 

In realtà, se si scava più a fondo, e oltre a prendere i considerazione soltanto la gestione previdenziale, si tiene conto anche della classe di reddito, le differenze diventano ancora più marcate. Prendiamo i due estremi. Un ex lavoratore dipendente che si trova nella parte più bassa di reddito (il cosiddetto “primo quintile”), vive in media cinque anni in meno, per esempio, di un ex pilota d’aereo che si trova nella parte di reddito più alta (il “quinto quintile”): 16 anni di pensione per il primo, contro 20,9 per il secondo. 

Non finisce qui. Differenze, anche marcate, ci sono nella durata della vita dopo il pensionamento, anche in base al territorio nel quale si vive. Per i maschi la longevità attesa è massima nelle Marche e nell’Umbria (18,3 anni una volta compiuti i 67 anni), mentre per le donne il record va al Trentino Alto-Adige, con una speranza di vita media dopo il pensionamento di ben 21,6 anni. In entrambi i casi, invece, la speranza di vita a 67 anni è più bassa in Campania e in Sicilia, pari rispettivamente a 17 e 17,1 anni. Anche nel caso delle Regioni il calcolo può essere ulteriormente “raffinato” tenendo conto anche del livello di reddito coniugale. Un uomo che si trova nella parte più alta della fascia di reddito (il “quinto quintile”), in Umbria e Marche vive in media per 19,4 anni dopo il pensionamento. Una donna, anche lei nella parte più alta della forchetta di reddito, e che vive in Trentino Alto-Adige, vive per altri 22,5 anni dopo il pensionamento. Una donna siciliana che, invece, si trova nella fascia più bassa di reddito, riceve in media la sua pensione per 18,8 anni. 

Secondo l’Inps, così scrive nel suo dossier, «la presenza di differenze significative è problematica dal punto di vista dell’equità ed anche della solidarietà in quanto l’attuale sistema previdenziale applica al montante contributivo un tasso di trasformazione indifferenziato. Il non tener conto», si legge ancora, «del fatto che i meno abbienti hanno una speranza di vita inferiore alla media risulta nell’erogazione di una prestazione meno che equa a tutto vantaggio dei più abbienti». 

Il concetto

Un concetto che nello studio dell’Inps viene ribadito più volte. Le differenze nella speranza di vita, si legge ancora, «si scontrano con l’utilizzo di un coefficiente di trasformazione unico per il calcolo della pensione che risulta fortemente penalizzante per i soggetti meno abbienti il cui montante contributivo viene trasformato in una pensione più bassa di quella che otterrebbero se si tenesse conto della loro effettiva speranza di vita. Viceversa», prosegue lo studio, «i più abbienti ottengono pensioni più elevate di quelle che risulterebbero da tassi che tengono conto della effettiva durata media della loro vita». 


 

Di coefficienti di trasformazione, in realtà, si è già parlato anche ai tavoli con i sindacati per la riforma previdenziale. Una delle richieste spesso fatta dai rappresentanti di lavoratori e pensionati, è proprio quella di bloccare l’adeguamento dei coefficienti alla speranza di vita. Questi indici che trasformano i contributi in pensione, vengono aggiornati ogni due anni. Normalmente, siccome la speranza di vita aumenta, l’impatto degli adeguamenti è peggiorativo sugli assegni. L’idea di differenziarli ulteriormente in base all’attività lavorativa o alla Regione di residenza, non è semplicissima. Anche perché altre differenziazioni potrebbero essere messe sul piatto. Come quella tra uomini e donne, con queste ultime che hanno una speranza di vita mediamente superiore a quella dei maschi. 

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