Siderurgia, la sfida della Ue: gara con gli Usa per il “clean tech”

L’azzeramento della CO2 da perseguire entro il 2050 sta cambiando il settore: in Svezia il primo impianto che ha sostituito il carbone con l’idrogeno

Siderurgia, la sfida della Ue: gara con gli Usa per il “clean tech”
di Gabriele Rosana
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Mercoledì 6 Settembre 2023, 11:56 - Ultimo aggiornamento: 7 Settembre, 06:00

In principio fu la Ceca, la Comunità economica del carbone e dell’acciaio antenata dell’Ue e del processo di integrazione comunitaria. Istituita nel 1951, aveva come obiettivo la creazione di un mercato unico che consentisse la libera circolazione delle risorse e facilitasse l’accesso alle fonti di produzione nel Vecchio continente appena riemerso dalla guerra.

Oltre settant’anni dopo, l’industria siderurgica è ancora una componente chiave delle partite politiche che si giocano in Europa: protagonista imprescindibile - sullo sfondo delle tensioni commerciali con gli Stati Uniti - della sfida della transizione ecologica per un’Ue che vuole azzerare le sue emissioni di CO2 entro il 2050. Per quella data, secondo le stime della World Steel Association, la produzione mondiale di acciaio dovrebbe aumentare di circa il 20%, per soddisfare una crescente domanda che porterebbe il consumo del metallo dalle attuali 1,95 milioni di tonnellate a 2,3.

IL NODO

 Fondamentale per la vita di tutti i giorni - dai frigoriferi alle ferrovie, dalle automobili ai ponti, dalle biciclette agli elettrodomestici -, stando ai dati dell’Agenzia internazionale dell’energia l’acciaio è, però, responsabile di circa il 7% delle emissioni carboniche a livello mondiale (quasi il triplo rispetto all’aviazione) e del 5% di quelle europee, in particolare in ragione del massiccio impiego del carbone nei processi produttivi, oltre che per l’intenso consumo di energia elettrica molto spesso generata da fonti fossili. Ecco che il futuro della siderurgia si intreccia con la scommessa per fare dell’Europa un campione dell’industria “clean tech” a zero emissioni, obiettivo chiave del Green Deal Ue. Una corsa che vede protagoniste tanto gli storici colossi dell’acciaieria quanto nuove startup emergenti. E per disincentivare l’importazione di acciaio più economico e non “green” da altre parti del mondo, da quest’anno è in vigore nell’Ue la Cbam, cioè una “carbon tax” che consiste nell’applicazione alla frontiera di un sovrapprezzo per le emissioni di CO2 generate durante la produzione di beni poi trasferiti in Europa. «Il recente slancio verso un acciaio “verde” offre all’Ue l’opportunità di essere all’avanguardia» in questo ambito industriale, sintetizza un recente studio della Commissione.

LA COMPETIZIONE

 La competizione, del resto, è già cominciata.

La Svezia ha battuto tutti sul tempo, e ha appena tagliato il nastro del primo stabilimento produttivo di acciaio pulito che, sostituendo il carbone con l’idrogeno, riduce fino quasi ad azzerare le emissioni di CO2 nella fase che precede la laminazione. A spiegare il senso della corsa all’acciaio “green” era stato, a maggio, l’allora vicepresidente della Commissione Ue e gran capo del Green Deal Frans Timmermans (che ha lasciato il ruolo a metà agosto per correre alle legislative olandesi): la siderurgia sostenibile, aveva detto, «è già una realtà in Europa, e lo sarà entro dieci anni negli Usa, in India e Cina. Se vogliamo rafforzare la base industriale dell’Ue, dobbiamo fare passi avanti sull’acciaio». Parole, quelle di Timmermans, pronunciate da Taranto e con riferimento allo stabilimento ex Ilva, perché, al pari di Svezia e Germania, pure l’Italia - aveva ricordato allora - ha le carte in regola per dar seguito all’ambizione di «produrre acciaio con l’idrogeno». Pochi mesi dopo, tuttavia, con l’ampia rimodulazione del Pnrr che ha consentito a inizio agosto l’inserimento del capitolo RePowerEU all’interno del Recovery italiano, il miliardo di euro stanziato in origine per il progetto del preridotto di ferro per l’ex Ilva è finito tra i circa 16 miliardi di definanziamenti: non un taglio netto, ma uno “spostamento” sui fondi di coesione, complici le incertezze quanto alla possibilità di finire l’opera entro il 2026, data limite per la conclusione dei progetti del Piano europeo. La mole degli investimenti del Pnrr resta comunque una opportunità di crescita per il comparto dell’acciaio. L’Italia, che ha la seconda industria siderurgica d’Europa alle spalle della Germania, non è la sola a guardare ai fondi pubblici per decarbonizzare la produzione di acciaio. Più che alle risorse comuni Ue, tuttavia, i nostri principali competitor hanno in particolare attinto al bottino degli aiuti di Stato “liberato” dal rilassamento delle regole europee in materia che è iniziato con la pandemia ed è proseguito con la guerra: solo a luglio, infatti, Bruxelles ha autorizzato due misure tedesche dal valore di circa 2 miliardi di euro per decarbonizzare la produzione di acciaio di ThyssenKrupp e una francese per 850 milioni per rendere più sostenibile un impianto di ArcelorMittal. Sono solo i più recenti tra gli ok della Commissione che fanno seguito a quelli già dati nei mesi precedenti sempre a Germania e Francia, ma pure a Spagna e Belgio. A creare qualche incertezza, sullo sfondo, rimangono da definire i contorni della tregua commerciale tra Bruxelles e Washington raggiunta due anni fa per congelare i dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio imposti ai tempi dell’amministrazione Trump. La pace va confermata entro il 31 ottobre, nel quadro dell’Accordo globale sull’acciaio e l’alluminio sostenibili, per evitare che tornino in vigore misure punitive su oltre 10 miliardi di dollari di esportazioni. 

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