Eni, Descalzi: «Il petrolio risalirà. Serve una Libia unita»

Eni, Descalzi: «Il petrolio risalirà. Serve una Libia unita»
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- Ultimo aggiornamento: 8 Marzo, 16:21

Claudio Descalzi, quanto durerà ancora l’anomalia di un prezzo del petrolio tanto basso?
«Chiariamo un equivoco. Negli ultimi 30 anni abbiamo avuto tanti cicli in salita e tanti in discesa, ma l’anomalia è il prezzo alto non il contrario. In questi sei anni abbiamo visto picchi di prezzo fino a 120 dollari il barile. Una dinamica interrotta nel dicembre 2014, quando l’Opec annuncia il disimpegno quale regolatore dei flussi. È a quel punto che il mercato finisce nelle mani della speculazione più hard, cioè gli hedge fund. Con la conseguenza che se negli anni ’80 per ogni barile fisico si muovevano 6 barili di carta (cioè futures sul petrolio, ndr), nel 2015 si è arrivati a 50. E quest’anno è presumibile che, data la congiuntura, quel rapporto aumenterà».

Quanto ha pesato invece la sovraproduzione?
«Negli ultimi dodici mesi Arabia Saudita e Iraq insieme hanno prodotto mediamente un milione di barili in più al giorno. Ben più della metà dell’eccesso di offerta che ha toccato in media 1,6 milioni, con punte fino a 2 milioni. Ovviamente ciò ha svilito ulteriormente il prezzo».

Ancora non ha detto quanto può resistere l’industria del petrolio ai prezzi attuali.
«Se guardiamo ai fondamentali, viene da pensare che la situazione non sia sostenibile a lungo. Anzi, è molto probabile una ripresa delle quotazioni già a partire dalla seconda metà del 2016».

 

Previsione ottimistica, considerando gli umori che circolano. Cosa la spinge a tanto?
«I numeri dicono che la capacità produttiva inutilizzata effettivamente disponibile solo aprendo la valvola, e quindi senza attività alcuna o investimenti, è ridotta oggi al 2%, la più bassa mai registrata: 10 anni fa era al 9%. Nello stesso tempo, registriamo una reattività sproporzionata che scatta non appena si verifica un accumulo negli stock americani. A ciò si aggiunge il calo obbligato della produzione determinato dal declino naturale dei giacimenti in produzione pari a circa 5 milioni di barili al giorno. Fatti quattro conti, la situazione è tale che ormai è come se ogni anno sparisse la produzione del Kuwait e degli Emirati insieme. Bisogna inoltre considerare il calo causato del taglio netto degli investimenti legato al crollo del prezzo del barile. Considerando poi che sul finire del 2015 la produzione non Opec è scesa di 600 mila barili ed è destinata a ridursi ancora per mancanza di investimenti, il cerchio si chiude. Ecco perché questi prezzi non possono reggere».

Però c’è l’effetto Iran, tornato in campo dopo l’accordo con gli Stati Uniti.
«A questi prezzi l’Iran può al più contribuire con 300-500mila barili al giorno, una quantità che non sposta nulla visto il declino produttivo che ho descritto. Certo, Teheran potrebbe produrre altri 2-3 milioni di barili, ma per arrivare a tanto sono indispensabili almeno 150 miliardi di nuovi investimenti: improbabile che in un contesto simile si trovino 150 miliardi per un solo Paese».
 
Quindi, a che livelli vede risalire il prezzo del greggio?

«L’Eni ha messo a budget un prezzo medio di 40 dollari per il 2016. Ed è prevedibile, anche grazie al recente accordo tra Russia e Arabia Saudita, che nei prossimi tre anni la stima possa crescere a 50-55 dollari fino a raggiungere 65 dollari nel 2019. Naturalmente non considero la componente speculativa, che di solito enfatizza l’altalena dei prezzi». 

C’è chi sostiene che un freno alla ripresa dei prezzi sia rappresentato anche dal miliardo e passa di barili che costituiscono la riserva Usa. Una quantità che se immessa sul mercato di sicuro non aiuterebbe.
«In verità, di quel miliardo solo 250 milioni sono il vero eccesso perché il resto è necessario al funzionamento del sistema energetico americano. E comunque stoccare costa, e chi vende lo fa solo quando il prezzo conviene. Per cui, a meno di necessità impellenti di qualche produttore con troppi debiti, non vedo imminente quell’eventualità». 

A proposito di produttori che hanno ceduto sotto il peso della congiuntura, oggi l’industria del petrolio pare profondamente trasformata.
«Confermo. Diciotto mesi fa c’erano non poche compagnie che valevano 30-40 miliardi, ora valgono a malapena 7-8 miliardi. Non esagero se dico che in questo arco di tempo il settore ha visto bruciare 1.000 miliardi di capitalizzazione. Gran parte delle compagnie americane ha pressoché dimezzato il valore».

Quale può essere un prezzo di equilibrio per gli Stati produttori e per le compagnie?
«Difficile indicare un numero buono per tutti. Ogni produttore possiede asset diversi e situazioni finanziarie diverse. Ci sono Paesi con un break-even a 120 dollari come il Venezuela, o a 100 dollari come la Nigeria. A loro volta alcune compagnie hanno un punto di pareggio a 70-80 dollari. L’Eni aveva ipotizzato 63 dollari costanti nel quadriennio: ci avrebbero consentito una neutralità organica, coprendo dividendi e investimenti. Ora siamo scesi a 50 dollari: è il prezzo che in questa fase ci consente una relativa tranquillità. Ma noi abbiamo asset convenzionali, situazioni costruite in modo da sviluppare esplorazioni vicine alle nostre facility. Ciò vuol dire che abbiamo una struttura di costi assai più bassa di altri. Basti dire che il nostro punto di pareggio tecnico è intorno a 20 dollari».

È questo il dato da paragonare ai 40-45 dollari al barile che l’Eni ha dichiarato a gennaio 2015 quando il petrolio viaggiava tra 50 e 60 dollari?
«No. Quello è il break-even finale che si ottiene aggiungendo tasse e royalties, ed è riferito ai progetti in sviluppo. Il dato sui progetti esistenti è più basso. L’obiettivo è riuscire a convivere con un prezzo tra 40 e 50 dollari, in modo che non si tocchino le riserve. Sicché basterebbe la cassa operativa per coprire investimenti, costi e dividendi. Il problema è che rispetto al 2014 il petrolio è sceso del 70%, ma i costi solo del 20-25%: il gap è ancora troppo ampio. E ciò elimina dalla competizione non pochi produttori».

Quanti sono i produttori capaci di fronteggiare questa nuova guerra del petrolio?
«La parola d’ordine è abbassare quanto più possibile la struttura dei costi. Paesi produttori come il Messico o quelli che si affacciano sul Mare del Nord faranno più fatica, perché hanno costi non facilmente comprimibili. Nel Golfo Persico il barile costa 1 dollaro; in Messico si arriva a 12-15 dollari. È chiara la differenza tra chi può resistere e chi farà fatica? Naturalmente è indispensabile che nel chiudere quel gap non vengano compromesse le risorse per lo sviluppo».

Dove si colloca l’Eni quanto a struttura dei costi?
«Da sempre l’Eni è proiettata sull’esplorazione più che sull’acquisto di scoperte definite. Dunque, il nostro punto di partenza sono asset poco costosi. Tanto è vero che a noi il barile di base costa molto poco, in media 1-1,5 dollari contro gli 8-10 dollari che pagheremmo per riserve già individuate. Il nostro break-even parte da questo primo mattoncino. Inoltre, privilegiamo molto le zone limitrofe ai grandi giacimenti così da avere costi ancora minori. È anche grazie a questa strategia se l’ultimo trimestre 2015 è andato bene nonostante un prezzo del greggio dimezzato. Si pensava che con un calo del 50% la cassa sarebbe crollata nella stessa misura, invece per noi il flusso si è ridotto solo del 15%».

E poi c’è il tema del debito.
«Sì, per noi è un fatto di grande rilevanza. Quando il petrolio viaggiava a 100-120 dollari il debito del gruppo Eni ammontava a 19 miliardi, con il greggio sotto 50 dollari siamo riusciti a ridurre la nostra esposizione a 11 miliardi. In altre parole, abbiamo dimezzato il debito mentre il prezzo del greggio crollava fin quasi a un terzo. Il fatto eccezionale è che si tratta di due curve che raramente convergono».

In ciò vi ha aiutato anche l’esservi alleggeriti del debito dell’ex controllata Saipem.
«Vero. E tuttavia osservo che tutte le principali compagnie petrolifere nel frattempo hanno accresciuto fortemente il loro debito. Cassa operativa e debito in caduta sono due fattori di grande interesse per gli investitori e il titolo non può che goderne: non a caso dall’inizio dell’anno siamo meglio di 11-12 punti percentuali dell’indice di Borsa».

Finora abbiamo parlato di dinamica del prezzo del greggio e degli effetti sul bilancio dell’Eni. Ma come si è arrivati a questa impasse? Qual è il vero ruolo dell’Arabia Saudita? E l’Opec come si muove?
«La maggior parte dei paesi aderenti all'Opec subisce l’attuale congiuntura. La ragione per la quale l'Arabia Saudita non ha voluto tagliare la produzione è anzitutto legata al cambio strutturale che negli ultimi cinque anni ha modificato le prospettive del mercato del greggio. Prima di allora solo l’Opec - da sempre guidata da Riyad - era in grado di determinare aumenti e tagli alla produzione finalizzati a smussare gli effetti della speculazione».

Poi sono arrivati lo shale oil e lo shale gas americani.
«Sì, e tutto è cambiato. Con un apporto produttivo in crescita di 1 milione di barili al giorno, lo shale oil ha costretto i sauditi a fare i conti con un nuovo soggetto capace di integrare gli eventuali tagli decisi dall’Opec. Sicché non solo veniva meno la capacità di governo del mercato, ma addirittura si creavano spazi nuovi a favore dello shale oil e a scapito dei produttori di petrolio. Di qui la decisione di non tagliare più un solo barile determinando, per eccesso di offerta, il crollo del prezzo del greggio».

Che ha messo nei guai i produttori di shale oil rendendo non più conveniente quella modalità estrattiva, visti i costi più elevati. Che cosa accadrà ora di quella nuova frontiera?
«Perché una buona parte dello shale oil torni sul mercato è necessario che il prezzo del greggio riveda 60 dollari. Ma questo è l'inizio della storia, perché con il tempo è probabile che l’evoluzione tecnologica riesca ad abbassare sensibilmente il costo di estrazione dello shale oil. Dobbiamo tuttavia considerare che stiamo parlando del 3-4% delle riserve mondiali, mentre il 75-78% è sotto il controllo Opec». 

Quindi non sbagliamo se scriviamo che l'Arabia Saudita è l'ago della bilancia.
«Non sbagliate. Tutto è cominciato con lo scontro tra produttori, con i sauditi in difesa. Poi si è aggiunto il petrolio dell’Iran, rendendo più aggressiva la reazione di Riyad. Bisogna considerare che nell'area del Golfo, ossia Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati, c'è il 36% della produzione Opec. Ed essendo gli unici che possono produrre a prezzi davvero modesti, di fatto hanno in mano il mercato. Non c'è iraniano, americano, venezuelano o nigeriano che possa competere». 

Quanto tempo può ancora durare questo stato di cose?
«Fino a quando il crollo degli investimenti non avrà fatto scattare una vera scarsità di offerta. In quel frangente il prezzo del petrolio potrebbe schizzare verso l’alto e poi stabilizzarsi sui 70-80 dollari. È un prezzo che per noi andrebbe benissimo e che è nelle cose per almeno una quindicina di anni grazie al fatto che lo shale oil, il cui picco di sviluppo è collocato al 2030, tornerebbe prepotentemente sulla scena».

Allarghiamo lo sguardo. La National Oil Company si è rivelata un fattore di stabilità. In Libia ha infatti continuato a distribuire i proventi del petrolio a fazioni anche in lotta tra di loro. Può essere un punto di partenza per la nuova Libia?
«Certamente. Bisogna costruire a partire da quello che funziona. La Noc e la Banca centrale hanno tenuto in piedi una struttura unitaria pagando gli stipendi a milizie differenziate, trattate nel loro insieme come un esercito nazionale. Si sono comportante come entità centrali».

Quanto è importante per l’Eni e per l’Italia una Libia unita?
«Tantissimo. Al di là della sua tradizionale suddivisione tribale, la Libia è un paese unito e unita deve rimanere. I libici lavorano insieme, sentono di appartenere a un’entità unica. L’unità è importante anzitutto per i libici, ma anche per la stabilità della regione. Una Libia spacchettata sarebbe strumentalizzata da altri, perciò deve restare assolutamente unita e tutti dobbiamo riconoscerne la sovranità».
 
Nelle cancellerie occidentali circola un’ipotesi di tripartizione dello Stato libico...
«Non escludo qualche tentativo di smembramento. Ma sarebbe devastante. L’unità della Libia è fondamentale per l’equilibrio di tutta la regione». 

I libici però non riescono ancora a esprimere un governo di unità e la necessità di un intervento per arginare l’Isis è sempre più urgente. Che fare?
«L’intervento è possibile solo in presenza di un governo sovrano che chiede aiuto e protezione. Concordo con il ministro Gentiloni: non si può intervenire senza questa richiesta che riguarda la sicurezza e la stabilità del paese e la protezione di siti strategici e installazioni industriali. È impensabile qualsiasi attacco militare non coordinato con i libici».

Altri però stanno già intervenendo. Gli americani con i raid contro l’Isis a Sabratha, per esempio. Pure i francesi...
«È interessante quanto è accaduto dopo i droni a Sabratha, cioè la reazione dei libici stessi contro l’Isis. Le milizie di Zintan si sono unite a quelle di Misurata, cosa che non era mai successa. Anzi, era impensabile. L’Isis è percepito come una forza straniera e i libici si sono mossi come un esercito unico, come sempre accade quando si sentono minacciati dall’esterno».

Il bombardamento ha colpito un’area a 20 chilometri dalle installazioni Eni. Quanto dobbiamo preoccuparci?
«Quando si bombarda vicino alle nostre installazioni dobbiamo sempre essere preoccupati. Ma, ripeto, ci rassicura la risposta eccezionale del popolo libico e delle milizie unite».

Sabratha è stata anche il luogo dell’epilogo drammatico della vicenda dei quattro italiani rapiti l’estate scorsa.
«Siamo vicini ai familiari dei nostri due connazionali uccisi e alla società Bonatti, per la quale lavoravano. Ed è una fortuna che la vicenda si sia risolta positivamente per gli altri due ostaggi».

Quanto sono sicure le nostre installazioni?
«Abbiamo lavorato molto nell’ultimo anno con la Noc. Bisogna capire che quelle installazioni sono anzitutto dei libici, forniscono energia a tutto l’Ovest e a parte dell’Est. Proteggerle è nel loro interesse. Le protezioni che abbiamo approntato ci danno una sufficiente sicurezza. Ci sono piani molto stringenti, ma la priorità per noi è comunque la sicurezza delle persone». 

La Libia è un tassello di una instabilità regionale che va dal Nord Africa al Medio Oriente. Come si pone l’Eni?
«L’Italia e l’Eni hanno lavorato duramente, guadagnandosi negli ultimi anni una posizione importante in quell’area. Nessuno si è mai mosso in Africa con la determinazione di Renzi che ha già compiuto diverse missioni e ha stretto un rapporto fortissimo con paesi come l’Egitto». 

Tutto questo può aver determinato una reazione? La guerra del 2011, le voci su azioni semi-segrete di paesi europei al fianco del generale Haftar mentre l’Italia media per la formazione di un governo di unità nazionale. Sono segnali preoccupanti. Come reagire per difendere i nostri interessi?
«Quello che abbiamo fatto è cercare terreni nuovi per noi. La scoperta dei giacimenti di Zhor in Egitto è molto significativa. Sicuramente l’Italia è tornata ad avere un ruolo centrale. Per la prima volta, forse, il paese nel suo complesso sta facendo sistema. Ma bisogna essere consapevoli delle proprie dimensioni. Il ruolo che l’Italia esercita oggi è forse superiore alla sua forza. Per questo è importante avere buoni rapporti con tutti».

Quanto pesa il caso Regeni sul rapporto tra Roma e Il Cairo? Qualcuno ha avanzato l’idea che dietro l’uccisione di Regeni e il ritrovamento del corpo ci sia un disegno contro l’Italia.
«Spero proprio di no. È terribile ciò che è successo a Giulio Regeni. Abbiamo detto chiaramente che noi siamo per i diritti umani, per questo pretendiamo assoluta chiarezza. La vogliamo come italiani e come Eni proprio per i rapporti che ci sono tra i due popoli. Siamo presenti in Egitto dagli anni ’50. Non è nostra competenza indagare, ma è un diritto di tutti sapere. Anche i tempi sono importanti. È pure interesse del governo egiziano fare chiarezza al più presto».

Torniamo alle vicende dell’Eni. A che punto è la cessione della controllata Versalis?
«Abbiamo selezionato il fondo Sk Capital tramite una gara, se chiudiamo con loro bene, altrimenti andiamo avanti. Premesso che non è il nostro business caratteristico né abbiamo la massa critica necessaria per un progetto di crescita, osservo che la chimica ha problemi anche a livello europeo. In 10 anni in questo settore l’Eni ha perduto 6,8 miliardi: se io non ponessi rimedio alla situazione gli azionisti farebbero bene a chiedermene conto. Devo poter fermare questa emorragia e lo stesso discorso vale per il deconsolidamento di Saipem. Io ho rispetto del nostro personale, tanto è vero che siamo l'unica azienda petrolifera che in un settore che sta tagliando migliaia di posti, non ha mandato a casa nessuno. Mi piacerebbe che il sindacato riconoscesse anche questo». 

Il giacimento di Zohr renderà autosufficiente sotto il profilo energetico l'Egitto. In Italia il mar Adriatico trabocca di gas, ma non sarà possibile estrarlo per i movimenti anti-trivelle. Tra breve si terrà un referendum che, molto probabilmente, decreterà anche la chiusura dei pozzi attualmente in attività entro le 12 miglia marine. Non lo trova un paradosso?
«Per capire la questione bisogna comprendere le ragioni che sono dietro il referendum.

Perché non si vogliono i pozzi? Il primo punto riguarda il rischio inquinamento. Ma i dati statistici ci dicono che sui pozzi a gas negli ultimi 50 anni non si è verificato nessun incidente, sono sicuri. Seconda motivazione portata contro i pozzi: mette a rischio il turismo. Una delle aree costiere dove si è sviluppato maggiormente il turismo di massa è il ravennate, dove da decenni sono presenti l'80% delle piattaforme. Quindi anche questa ragione non regge. La terza cosa che farei notare è che in Adriatico non si fanno pozzi dal 2009. In Puglia, l'ultimo è del 1997, quasi vent'anni fa. Il referendum, insomma, chiede di dire no a qualcosa che non si sta facendo».

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