Eppure questa decisione non avrebbe dovuto sorprendere, perché era stato più volte ripetuto che la politica dei bassi tassi si sarebbe interrotta solo in presenza di una forte crescita dell’economia americana accompagnata dall’aumento dei prezzi interni e da un andamento tranquillizzante dell’economia mondiale. Ebbene, solo la prima di queste tre condizioni si è almeno parzialmente realizzata, con discrete prospettive di crescita dell’economia statunitense, che chiuderà l’anno in corso con una crescita di poco superiore al 2% e con una disoccupazione ancora in diminuzione, anche se con forti elementi di insicurezza rispetto al futuro. Le altre condizioni non si sono invece verificate, perché i prezzi di agosto sono addirittura calati nei confronti di quelli di luglio, sono cresciuti in modo trascurabile rispetto ad un anno fa e anche i salari sono rimasti al palo. Ancora meno si sta realizzando la terza condizione, dato che l'economia mondiale lancia messaggi di sempre maggiore preoccupazione.
Pigra, anche se con qualche segnale di risveglio, rimane infatti l'Europa mentre, tra i grandi Paesi in via di sviluppo, solo l'India, pur con le sue note fragilità, fa meglio del previsto. Dobbiamo infatti registrare un vistoso meno nell’economia di Brasile e Russia, un preoccupante sbandamento della Turchia ma, soprattutto, crescenti preoccupazioni nei confronti della Cina che, pur rimanendo la grande novità dell’economia mondiale, sta diventando un punto interrogativo. I messaggi che giungono da Pechino insistono sempre su una crescita "normale", cioè del 7%, ma questi dati appaiono difficilmente compatibili con altri dati che escono dalla stessa Cina.
È infatti difficile pensare che un così elevato livello di crescita possa coesistere con un consumo di energia sostanzialmente stazionario, con importazioni che crollano e con una domanda di automobili che da mesi precipita. È vero che la Cina ha iniziato con vigore il processo di terziarizzazione ma questo passaggio non può essere così rapido da bilanciare tutti i numeri che mancano per arrivare al magico 7%. D’altro lato la sorprendente crescita indiana non può che offrire uno scarso contributo agli equilibri mondiali, dato che l'economia dell’India pesa poco più di un quinto di quella cinese.
L'Europa contava infatti sull’aumento dei tassi americani, perché questa decisione avrebbe alla fine provocato una rivalutazione del dollaro nei confronti dell’euro e avrebbe quindi facilitato le esportazioni europee in una vasta parte dei mercati mondiali. Il tutto era fondato sul l'illusione che la Banca centrale americana agisse come la banca centrale del mondo e che, nelle sue decisioni, si facesse carico degli interessi globali e, quindi, anche di quelli europei.
La decisione di alzare i tassi americani avverrà a tempo dovuto, e cioè quando si affaccerà un rischio concreto di inflazione interna.
Sperare che la Riserva Federale si comporti come la banca del mondo è un’illusione che non ha senso: essa si prende cura dei propri interessi e di quelli stranieri che li possono mettere a rischio. Qualche decimo in più della crescita europea non poteva nemmeno entrare nelle motivazioni ultime dei decisori americani. Nel caso greco gli Stati Uniti hanno fatto sentire la loro voce perché una rottura europea poteva davvero turbare gli assetti globali, e quindi anche quelli americani. Nel caso in questione l’interesse europeo non coincideva con quello dei nostri amici d’oltreoceano. Perché quindi turbarsi quando sono accadute le cose normali? Se i nostri mercati finanziari fossero meno nevrotici anche la nostra economia reale procederebbe con un passo più tranquillo.