Donne di pace, il Nobel 2023 all'iraniana Narges Mohammadi diventa segno dell'impegno femminile per la mediazione. Le attiviste

Da 23 anni l’Onu chiede più inclusione nei processi di mediazione come avvenuto in Siria e in Colombia. Un invito raramente ascoltato. Eppure attiviste come Ariela Piattelli, Luisa Morgantini, Monica Minardi e Daniela Fatarella continuano a combattere contro la guerra

Donne di pace, il Nobel 2023 all'iraniana Narges Mohammadi diventa segno dell'impegno femminile per la mediazione. Le attiviste
di Raffaella Troili
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Mercoledì 27 Dicembre 2023, 10:05 - Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 06:36

Una sedia vuota. La forza potente di un messaggio in un mondo senza Pace.

Dove le donne più attive e appassionate lavorano nell’ombra o sono rinchiuse in carcere. Simboli di una pace che in molte parti del mondo è lontanissima. Lontana come lo è Narges Mohammadi, attivista iraniana per i diritti umani e Nobel per la Pace 2023, che non ha potuto ritirare il premio. Dal 2021 è rinchiusa nella prigione di Evin a Teheran, inferno dei detenuti politici, per via della sua campagna contro l’uso obbligatorio dell’hijab e contro la pena di morte. Nel giorno della consegna, ai lati della “sedia vuota” al centro del palco del Municipio di Oslo, c’erano i figli Kiana e Ali. Hanno letto il discorso scritto in cella dalla mamma, attacco durissimo alla Guida Suprema Ali Khamenei e ai suoi, un «regime religioso tirannico e misogino». Sullo sfondo una sua gigantografia, la folta chioma scura e riccia, scoperta. Arrestata e condannata più volte negli ultimi decenni, non ha nessuna intenzione di mollare. Come le donne israeliane, palestinesi, ucraine e russe solo per citare i conflitti più caldi.


LA PARTECIPAZIONE


Eppure nelle negoziazioni, nelle stanze dei bottoni, dove si decidono strategie di pace il ruolo delle donne è ancora secondario. È emerso da un seminario 2021 di UN Women sul tema Rafforzare la partecipazione delle donne nei processi di pace: quali ruoli e responsabilità per gli Stati membri? svoltosi a Roma. Dall’adozione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite della risoluzione 1325, era il 2000, l’agenda “donne, pace e sicurezza” ha preso corpo ma la partecipazione delle donne, il ruolo nella mediazione e risoluzione politica dei conflitti resta marginale. Esistono reti di mediatrici in molti Paesi ed esperienze positive nella società civile ma «le donne occupano ruoli di osservazione e una partecipazione attiva è relegata a problematiche associate alla sfera femminile. L’inclusione delle donne nei processi di pace è percepita come un ostacolo a una risoluzione urgente ed efficace dei conflitti». La generale sottorappresentanza delle donne sulla scena politica contribuisce a limitarne il reclutamento. Nonostante proprio alle donne vengono richieste ulteriori “competenze”. Tra i principali risultati emergono la rete di donne africane Femwise-Africa, quella delle mediatrici del Commowealth e quella dell’area nordica. Un caso di studio è quello dell’accordo di Pace tra governo colombiano e le Fuerzas Armadas Revolucionarios de Colombia in cui le donne colombiane si sono mobilitate per ottenere una rappresentanza femminile al tavolo negoziale; anche il processo di Pace in Siria fornisce un esempio di leadership creativa delle donne nei negoziati. «L’inclusione deve diventare la norma» se necessario «con un sistema di quote». Un’analisi di 40 processi di pace conclusi dalla Guerra fredda (condotta dal Graduate institute di Ginevra) ha evidenziato che le probabilità di concludere accordi di pace sarebbero superiori laddove gruppi di donne abbiano la possibilità di esercitare un’influenza determinante sui negoziati. Ma la discriminazione di genere resta alta, da 23 anni le Nazioni Unite chiedono una maggiore presenza femminile nella soluzione dei conflitti. 
Ma dopo il 7 ottobre molti processi di umanità si sono “inceppati”. Ammette Ariela Piattelli, direttore della rivista della comunità ebraica Shalom: «Il mio giornale si chiama Pace ed è nato nel ‘67 durante il momento più buio della Guerra dei sei giorni, perché chi c’era prima di me, Lia Levi, una delle prime donne a dirigere un giornale, ha attraversato le leggi razziali e si è profusa per esprimere la ricerca costante di Israele di pace.

Siamo stati aggrediti ancora, la nostra battaglia è attuale. E sono rimasta sconcertata dal silenzio delle organizzazioni umanitarie internazionali che di diritti delle donne si occupano. Non una parla per le donne israeliane, rapite, stuprate, sui corpi delle quali è stata compiuta ogni nefandezza. Ci siamo sentite abbandonate come ebree e come donne». 


LE TESTIMONIANZE


Shalom si è interrogato, «su un silenzio complice, sull’indifferenza che è connivenza. E se noi abbiamo lavorato per 80 anni sul discorso della memoria perché servisse a mantenere la pace, dobbiamo capire che qualcosa non ha funzionato, una sconfitta per tutti. Le donne israeliane valgono meno delle altre, eppure erano quelle che nella pace ci credevano, perché lì stavano». L’amarezza. Trapela in questa e altre testimonianze, «i crimini contro Israele sono sempre meno crimini. Noi cerchiamo di raccontare la vita delle persone strappate alla normalità il 7 ottobre, bambini innocenti, lavoratori pacifisti, collaboravano con ong israeliane coinvolte nei valori della pace, noi non saremo mai più gli stessi, dopo il 7 ottobre è cambiato tutto. Ci siamo resi conto che siamo stati una vita a dire mai più, invece è riaccaduto». Scoraggiata Luisa Morgantini, figlia di partigiani, ex vice presidente del Parlamento Europeo con l’incarico delle politiche europee per l’Africa e per i diritti umani, tra le fondatrici della rete internazionale delle Donne in nero contro la guerra e la violenza e dell’associazione AssoPacePalestina, fa parte del coordinamento nazionale dell’Associazione per la pace. «C’è stata, ma in questo momento non c’è più una diplomazia delle donne per la pace, tra palestinesi e israeliane. E c’è stato un progetto per dimostrare che le donne sanno costruire relazioni e rapporti. Con i bombardamenti di Gaza è saltato tutto, la rete non c’è. Servono forze giovani. Spero che questo disastro immane dove piango dall’una e dall’altra parte, possa far pensare a far ricostruire davvero generazioni». Parole accorate quelle di Monica Minardi presidente di Medici senza Frontiere Italia: «È talmente alto il senso di frustrazione, non ci resta che comunicare, almeno seminare parole, racconti di speranza, la parola può essere un’arma. Anche se sembrano assurdi, ovunque ci sono crisi che vanno avanti nel silenzio e non penso solo all’Ucraina ma al Sudan, a Khartoum, dove si continua a combattere». Quanto a Gaza, «dove siamo dall’‘89, i feriti sono per lo più donne e bambini, i più vulnerabili, non ci sono spazi di cura, un grande fallimento, noi come Msf portiamo avanti un intervento imparziale e neutrale, non c’è una parte completamente pura e una completamente impura».
Non è un caso che ci sia un’altra donna, sul fronte umanitario. Ricorda la direttrice generale di Save the Children, Daniela Fatarella, che «noi siamo nati da una grande donna di pace nel 1919, Eglantyne Jebb, alla fine della I guerra mondiale fu arrestata mentre distribuiva volantini con foto di bambini affamati austriaci. Disse una cosa per noi sacrosanta ancora oggi: “nessun bambino può essere considerato un nemico”». Messaggio attuale. «Aveva capito che bisogna investire sull’infanzia per creare un capitale sociale, nel nostro dna c’è una donna che ha messo in atto una serie di dinamiche sulla pace. Sull’esempio di Eglantyne credo che la partecipazione delle donne sia importante in tutti i processi di pace. Sono le più coinvolte a livello locale, con le reti sociali, le famiglie, i bambini. Innegabile che sanno far fruttare in modo più positivo gli investimenti fatti su di loro che sia il microcredito (molto più alto degli uomini), l’educazione, quella di una bambina ritorna di più e sarà anche madre più consapevole oltre a fruttare meglio in termini economici. Non a caso il Premio Nobel ha fatto della sua vita il simbolo della sua battaglia per la parità di genere e per la costruzione di un Paese più giusto e democratico». 
 

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