«Per noi chirurghe strada in salita». E una su tre deve lasciare il bisturi

«Per noi chirurghe strada in salita». E una su tre deve lasciare il bisturi
di Carla Massi
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Sabato 2 Luglio 2022, 16:29

«Mi chiamo chirurgo, né signora né signorina. Non sostengo le quote rosa, solo la competenza dovrebbe permettere di affermarsi. Ma non posso negare che le donne medico specializzate in Chirurgia hanno davanti una strada molto più in salita di quella degli uomini. Soprattutto se vogliono essere anche mamme». Fouzia Mecheri, responsabile dell'Unità operativa semplice della Chirurgia bariatrica (dell'obesità) dell'ospedale di Baggiovara (Modena), ha appena coordinato un gruppo di lavoro di professioniste all'interno del congresso della Società italiana di chirurgia dell'obesità e delle malattie metaboliche presieduta da Roberto Moroni (su 650 chirurghi iscritti 105 sono donne).
Per la prima volta in un incontro di questo tipo si affronta il tema di donne chirurgo, problemi sul lavoro e maternità. Parliamo di chirurghe sulla carta, ma spesso destinate ad attività ambulatoriali o di reparto. E quando finalmente svolgono attività di sala operatoria, intervengono come primo operatore nell'8,4% dei casi ad alta complessità ma il 17% di quelli a bassa complessità.
Il più delle volte solo nei casi più semplici. E, spesso, dopo la maternità si ritrovano, senza che nulla sia scritto, a ricoprire ruoli inferiori rispetto a quelli che ricoprivano prima della gravidanza.
Come dimostra uno studio sulla situazione professionale delle chirurghe italiane promosso da Women in Surgery Italia e pubblicato sulla rivista Updates in Surgery. La ricerca ha coinvolto oltre 1.800 chirurghe impegnate negli ospedali italiani, un campione piuttosto variegato che comprendeva dalle specializzande alle professioniste con molti anni di esperienza, formazione all'estero e qualifiche. Risultato: una su tre delle intervistate ha dovuto abbandonare in una certa misura l'attività chirurgica a favore di prestazioni ambulatoriali.
LA RICERCA
Il fenomeno del sotto-utilizzo in sala operatoria è però più ampio: più della metà delle chirurghe coinvolte nell'indagine riferisce di dedicare almeno il 50% del proprio tempo ad attività non chirurgiche (servizi ambulatoriali, reparto, ecc.), anche se vorrebbe dedicare meno tempo a queste attività.
«In Italia, finire la scuola di specializzazione e diventare chirurghe non significa fare effettivamente i chirurghi, anche se è ciò a cui si aspira. Molte di noi hanno il titolo, ma svolgono attività clinica e non di sala operatoria» spiega Gaya Spolverato, chirurga oncologa all'Azienda Ospedale Università di Padova e tra le autrici dello studio. Il 61% del campione ha dichiarato di essere stata trattata in modo diverso in ambito professionale a causa del proprio genere; nello specifico il 50% ritiene di godere di una considerazione generale inferiore rispetto ai colleghi, il 47% di avere meno possibilità di essere promosso.
IL PART-TIME
La dottoressa Fouzia Mecheri di storie di colleghe giovani che faticano a lavorare ne ha raccolte molte. «Ho una figlia adolescente ho lottato più di un uomo ma non possiamo accettare che prosegua così. La nostra specializzazione ha delle peculiarità che sicuramente fanno decidere molte a mettersi da parte. Pensiamo alla reperibilità, pensiamo che, a differenza di altri ruoli, per noi non è previsto il part-time. Io devo dire grazie a mio marito che mi ha sempre sostituito con la bambina a casa. Va detto che nelle corsie si ripetono vecchi schemi ma anche i pazienti, molto spesso, hanno meno rispetto nei nostri confronti. Dobbiamo sempre rimettere la relazione in ordine. Agli uomini non capita. Devo anche dire che avere un direttore della Chirurgia generale d'urgenza donna nell'ospedale dove lavoro, la dottoressa Micaela Piccoli, fa la differenza».
 

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