Antonio Pennacchi, torna “Mammut”:
la classe operaia merita rispetto

Un metalmeccanico al lavoro
di Antonio Pennacchi
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Lunedì 28 Febbraio 2011, 17:19 - Ultimo aggiornamento: 4 Marzo, 18:59
Questo libro stato scritto quando c’era ancora l’unit sindacale. Anzi, c’erano pure ancora a questo mondo l’Unione Sovietica e i paesi del blocco socialista, e l’Albania era sola come un cane. Era l’Albania di Enver Hoxa ancora, che dopo avere litigato con l’Unione Sovietica aveva pure litigato con la Cina maoista. Nessuno gli dava più niente. Né una goccia di petrolio né una stilla di caucciù. Cose peraltro che loro neanche volevano. Volevano restare soli e basta – “meglio soli che male accompagnati” – asserragliati in mezzo a tutto l’universo, gli unici rimasti puramente marxisti-leninisti per davvero. Oltre a noi della Fulgorcavi, ovviamente.



Il sindacato era ancora unitario in Italia. Cgil, Cisl e Uil non si sarebbero mai sognati di andare a firmare un contratto o un accordo, ognuno per conto suo. C’era già stata in realtà l’avvisaglia della “notte di S. Valentino” sui due punti di scala mobile, e poi il referendum per abrogarne l’accordo, promosso dalla componente comunista della Cgil. Io stavo con loro, ma è lì che è irrimediabilmente cominciata la rottura dell’unità sindacale. All’inizio non fu immediata, poiché nelle fabbriche c’erano ancora i “Consigli dei delegati”. Ogni reparto eleggeva il proprio delegato su scheda bianca, e il delegato poteva anche essere un non iscritto al sindacato. Non erano quindi le singole organizzazioni a scegliersi i rappresentanti, ma erano Cgil, Cisl e Uil che tutte assieme dovevano confrontarsi con quel Consiglio eletto dal basso. Era democrazia diretta e si chiamava proprio il “sindacato dei consigli”. Una specie dei soviet.



Dice: “Ma eravate un po’ matti”. Sì, forse. Io ancora fino al 1978 – ma anche dopo, fino all’80, all’81 – pensavo di stare a lavorare per la rivoluzione, che la fabbrica fosse la nostra, non del padrone, e che prima o poi ci saremmo riusciti a costruire un mondo nuovo di giustizia e fraternità fra tutti, senza più lo sfruttamento capitalistico. Ero ancora un “antagonista” – come si suole dire – e il nostro era, appunto, un sindacalismo antagonista.

Diventiamo “socialdemocratici” – e io pure togliattiano e riformista – nel 1981, quando la fabbrica entra in crisi e rischia di chiudere. E’ lì – quando la fabbrica l’abbiamo dovuta gestire noi, perché restasse aperta e restasse sul mercato – che ci mettiamo a fare i conti con le compatibilità aziendali e l’economia di mercato stessa. Che altro potevamo fare? La facevamo chiudere? Poi è andata come è andata.



Sta tutto scritto nel romanzo. La fabbrica è rimasta aperta altri trent’anni. L’hanno chiusa adesso, nel 2010. E se il fatto d’averla tenuta tutti assieme aperta allora è uno dei più bei ricordi e soddisfazioni della mia vita, il fatto che l’abbiano chiusa adesso è uno dei dolori più grandi. Io – come ogni operaio – le volevo bene alla mia fabbrica, ai suoi reparti, alle macchine. E ogni tanto, di notte, mi sogno che mi richiamano a lavorare. A volte mi dà ansia, perché debbo superare un’altra volta il periodo di prova. Ma il più delle volte è gioia pura, perché sto coi miei compagni, anche quelli che non ci sono più, e lavoro alle mie macchine, la Maillefer 120, i siluri, lo Shaw, la conica. Certe volte pure la Smalteria. (...)



Un operaio è prima di tutto una persona. Ma questo nelle fabbriche se lo scordano spesso. Non te lo devi scordare più, padrone mio, perché quando quella persona si mette la tuta, tutti là dentro gli danno del tu. Se invece hai il càmice o la giacca, ti danno del lei. Ma se quel povero operaio ha poi la fortuna che gli Dei lo assistono mettendogli sulla sua strada un capoturno, caporeparto o caposquadra educato, la sua vita può anche scorrere tranquilla ad affrontare i soli problemi della vita cosmica e del ciclo produttivo. Ma non sempre accade così, anzi accade più spesso il contrario. Il mondo è pieno di gente che si investe dell’autorità altrui e non c’è principio d’autorità – in questo Paese – più forte di quello aziendale.



C’è più democrazia in una caserma dei Carabinieri che dentro i reparti delle fabbriche. E se per tua disgrazia trovi un caposquadra incolto od arrogante e tu al momento dell’assunzione hai dovuto firmare un contratto che limita il tuo diritto di sciopero ai soli scioperi proclamati ufficialmente dai sindacati “autorizzati” – se tu cioè ti proclami uno sciopero dal basso, coi soli tuoi compagni di reparto, ti possono licenziare sui due piedi – tu sei alla completa mercé, otto ore al giorno, di quel testa di cazzo. Per tutti i giorni che manda l’anno. “Autòmata” appunto, come dice Aristotele degli schiavi. Non più persona, ma “adiectum” alla macchina. Una manopola o un attrezzo come tanti.



Prima Marchionne e i suoi compagni capiscono queste elementari cose, e meglio è per tutti. Non si può stravincere, non si può tirare la corda. Prima o poi la gente si incazza. Dice: “E l’azienda?”. Io all’azienda gli voglio più bene di te. Io ho solo quella. Tu forse no. La mia vita stessa, invece, è legata a lei. Non sono suo nemico. Io sono il suo primo alleato – la sua prima ricchezza – se solo mi sa prendere. Si chiama democrazia. E i nemici delle fabbriche sono altri, non sono io: sono quelli che le fabbriche – sia a me che a te – ce le vogliono far chiudere sotto i gravami d’una società bloccata o sognando che sia possibile un mondo in cui si sta bene ma non si produce. Vogliono la bicicletta per correre in mezzo al verde, per esempio, ma non vogliono gli altiforni necessari per produrla. Non mi tenere ancora lì dentro trattandomi da subumano, uno – come può dire solo un ministro nazionalsocialista – “che l’intelligenza ce l’ha nelle mani”. Lui ce l’ha nei piedi eventualmente, gli venga la pellagra.
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