Il tenente colonnello Spoletini: «Il Gran Sasso è come una spugna inserita in ambiente protetto»

Processo acqua del Gras Sasso, il pm Greta Alosi (FOTO NEWPRESS) Il tenente colonnello Spoletini: «Il Gran Sasso è come una spugna inserita in ambiente protetto»
di Teodora Poeta
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Giovedì 28 Ottobre 2021, 10:19 - Ultimo aggiornamento: 10:44

Ha finalmente preso il via il complicato processo sul presunto inquinamento dell’acqua del Gran Sasso con il primo testimone dell’accusa sentito, ieri, a distanza di oltre due anni dalla prima udienza. Si tratta del comandante del Nucleo operativo per la tutela dell’ambiente di Pescara, il tenente colonnello Antonio Spoletini, che ha ricostruito l’indagine svolta su delega del pool di magistrati della Procura di Teramo. «L’acquifero non sta sotto, sta dappertutto». E’ in questo modo che il comandante del Noe di Pescara ha esordito nell’aula allestita per questo processo nella sede del Campus universitario, dopo aver descritto il Gran Sasso «come una spugna inserita in un ambiente protetto dove ci sono la galleria più lunga d’Europa, dove sono stati ricavati i Laboratori di fisica nucleare, e l’acquifero del Ruzzo». «Una convivenza particolarmente complicata», ha detto.

LE SLIDE E’ proprio mostrando le slide che Spoletini ha confermato come non esistessero neanche le planimetrie dei luoghi con tutte le modifiche avvenute negli anni. Nel 2017, quando sono iniziate le videoispezioni della rete idrica, gli esperti del Noe hanno subito avuto la prova, andando ad aprire uno dei primi pozzetti, «che c’era connessione tra dentro e fuori». «La rete di scarico del Gran Sasso, così come realizzata – ha spiegato il tenente colonnello – non corrispondeva all’immagine che avevamo perché i Laboratori non dovevano confluire». E invece era tutto collegato. Questo significa che «quando le fogne del Gran Sasso vengono messe a scarico finiscono nel fosso Gravone e quindi nel fiume Vomano.

In particolari condizioni potrebbe anche succedere che se l’Enel sta facendo determinate manovre, una parte di acqua potrebbe andare nel potabilizzatore». Sotto la lente d’ingrandimento oggi ci sono pure le opere di messa in sicurezza che l’ex commissario straordinario Angelo Balducci avrebbe dovuto eseguire, ma a quanto pare sono rimaste disattese. «È stata fatta la separazione dello scarico dei laboratori da tutto il resto – ha spiegato Spoletini – e un chilometro e mezzo su venti di perfetta impermeabilizzazione pavimentale, per quanto riguarda il relining completo delle condotte non c’è neanche il progetto». Per gli uomini del Noe in fase di indagini è stato complicato pure reperire i documenti presso la struttura commissariale. «Molti faldoni erano stati sequestrati dal Ros di Firenze – ha spiegato sempre Spoletini - Abbiamo trovato la relazione finale del commissario Baldini non firmata e mancano i certificati di collaudo di quanto realizzato».


GLI ALLARMI  Nelle acque sotterranee, inoltre, i carabinieri del Noe hanno scoperto che c’erano rilevazioni di anomalie, ma in alcuni punti mancavano le sonde che facevano scattare eventuali allarmi in presenza di contaminanti nelle acque. Durante le ispezioni nella rete idrica sono state trovati un badile «che sicuramente non ci doveva essere», ha detto Spoletini, ma anche residui di calcinacci, pezzi di travi di ferro, tubi rotti e sui fondali fango contaminato. Tutto questo in un sistema di interconnessione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, come lui stesso li ha chiamati. Sono dieci gli imputati in questo processo tra gli allora vertici di Strada dei Parchi, Istituto di fisica Nuclare e Ruzzo reti ai quali vengono contestati i reati di inquinamento ambientale e getto pericoloso di cose, oltre ad un illecito amministrativo contestato, invece, alle due società Strada dei Parchi e Ruzzo Reti. «Un processo nato sull’incidente del maggio 2017 che provocò il divieto del consumo a scopo potabile dell’acqua del Gran Sasso in gran parte della provincia di Teramo» ricorda Dante Caserta, vicepresidente Wwf Italia. 

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