Le lettere di Cheever, lo scrittore dottor Jekyll e signor Hyde

Le lettere di Cheever, lo scrittore dottor Jekyll e signor Hyde
di Luca Ricci
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Venerdì 6 Febbraio 2015, 21:34 - Ultimo aggiornamento: 7 Febbraio, 12:28
John Cheever - ormai riconosciuto come uno dei grandi scrittori americani del novecento - ha parlato meglio di chiunque altro del nodo cruciale tra essere e apparire.

La sua narrativa, sia breve che lunga, in effetti non è che una lunga variazione sul seguente tema: quanto ci rende infelici dare a intendere che siamo felici?



Se nella sua opera il tema è enunciato esplicitamente, adesso il lettore ha l’opportunità di andare alle origini del problema, per così dire, frugando nella vita dello stesso scrittore. Dopo il diario “Una specie di solitudine”, Feltrinelli adesso manda in libreria “Le lettere di Cheever” (pag. 448, 35,00 €, a cura di Benjamin Cheever, traduzione e postfazione di Tommaso Pincio), un libro straordinario proprio perché ci svela la sostanziale doppiezza della vita dello scrittore, e quindi ci fa vedere da molto vicino la matrice da cui sono generati i suoi capolavori letterari.



La schizofrenia esistenziale si manifesta innanzitutto nel voler condurre una una vita al di sopra delle proprie possibilità. Cheever giocò per tutta la vita a fare il gentiluomo di Ossining, un sobborgo newyorkese immerso nel verde, ma in realtà era solo uno scrittore dalle alterne fortune editoriali e le modeste entrate economiche. Questo senso di inadeguatezza è sempre presente, anche quando le cose sembrano mettersi bene. Nel 1979 rievoca così una festa nella casa del suo primo editor, Malcolm Cowley: “Il mio unico intento era di apparire molto sofisticato e chiesi un Manhattan. Seguitai a bere Manhattan nel timore che qualcuno pensasse che venivo da una piccola città come Quincy, Massachusetts”.



In secondo luogo c’è l’immagine dello scrittore di racconti- il maestro della forma breve che scriveva per il New Yorker, cioè il meglio del meglio per quanto riguarda le short stories-, dietro il quale stava acquattato un romanziere livido di rabbia, che alternò per le sue composizioni lunghe rifiuti e insuccessi, beccandosi spesso un coro di fischi e quasi mai uno scroscio d’applausi. Nel 1947 si sfogò con lo scrittore John Weaver: “Ho avuto pesanti mazzate finanziarie e così sono tornato a impelagarmi nei racconti. La mia voglia di scrivere racconti è pari al desiderio di scoparmi una gallina”.



Infine c’è il grande inganno del sesso e delle sue identità di genere. Per il galantuomo di campagna Cheever- impeccabile padre di famiglia (benché col pallino dell’alcol)- c’è spazio solo per la monogamia. Ma come conciliare questo spirito puritano con la sua bisessualità? Ecco lo stralcio di una lettera spedita a un suo giovane amico nel 1979: “Ho pensato per un anno che un simile amore debba essere perverso, crudele e invertito ma non riesco a trovare alcuna traccia di ciò nella mia passione per te”.



Come un dottor Jekyll e signor Hyde del nostro tempo in Cheever convivevano pulsioni opposte e forse inconciliabili. In lui c’era una parte razionale, geometrica, scientifica; e un’altra che invece si poneva al di là del bene e del male, fanciullesca, perfino bestiale. Anche la sua scrittura in fondo era scissa, perché era rigorosa come quella di Hemingway ma trasudava sensualità come quella di Maupassant. Forse non è un caso se il suo racconto più celebre, “Il nuotatore”, parli di una ricca contea fatta di ville e piscine, salvo poi chiudersi sulla casa del protagonista che nel frattempo è divenuta un rudere disabitato. Anche la Londra stevensoniana de “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde era fatta così”: le facciate delle case erano linde, le corti dei palazzi invece abiette.



(Twitter: @LuRicci74)