John Cheever, lo scrittore arci-americano

LUca Ricci
di Luca Ricci
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Sabato 24 Maggio 2014, 08:05
Primavera del 1969. A Ossining, un sobborgo di New York immerso nel verde, un uomo si toglie i vestiti e va a tuffarsi in un laghetto vicino a casa, lasciando di stucco la giornalista della Paris Review che lo segue. Quell’uomo si chiama John Cheever, di mestiere fa lo scrittore, ed è convinto che alla fine di ogni intervista ci sia bisogno di una nuotata catartica, perché parlare del proprio lavoro, svelare i cosiddetti trucchi del mestiere, non fa per lui. Poco prima aveva risposto così a una delle domande che gli venivano poste: "Quando scrivo un racconto che mi piace è meraviglioso. E’ quello che so fare, e adoro farlo. Dico a tutti di lasciarmi solo, in genere dopo tre giorni ho finito".



Oggi per apprezzare il lavoro di Cheever il lettore italiano non ha più scuse. Feltrinelli ha pubblicato uno dopo l’altro "I racconti" (pag. 825, 40,00 €) e una selezione dei diari col titolo "Una specie di solitudine" (pag.504, 20,00 €). Due libri monstre che colmano una lacuna editoriale e ci dicono anzitutto che Cheever è stato un narratore arci-americano: ha rappresentato una specie di summa di tutti quei vizi leggendari che siamo ormai abituati ad associare agli scrittori a stelle e strisce. I suoi genitori ebbero un tracollo finanziario a causa della grande depressione del ‘29, la sua carriera scolastica fu quantomeno tormentata e culminò con un’espulsione senza appello, il suo ménage familiare andò presto a rotoli trasformandolo in un tabagista e alcolista accanito, il suo rapporto con il cinema e Hollywood si consumò rapidamente tra lauti assegni e porte sbattute in faccia, la sua controversa sessualità gli valse la patente di nevrotico affetto da sdoppiamento della personalità. Insomma nessun tormento che non avesse già provato Fitzgerald o Fante, Hemingway o Carver.



Come tanti altri anche Cheever affidò il suo battesimo letterario al New Yorker, dove proseguì a pubblicare con regolarità decine di racconti, guadagnando abbastanza, come era solito affermare, per comprarsi un vestito nuovo all’anno. Come scrittore di racconti la consacrazione arrivò nel 1979, quando la raccolta "The stories of John Cheever" vinse il prestigioso Premio Pulitzer per la narrativa e restò nella classifica dei best seller per oltre sei mesi. Il luogo comune vuole che lo scrittore scriva racconti per prendersi una pausa tra un romanzo e l’altro. Per Cheever forse è stato vero il contrario: continuò a scrivere racconti per cinquant’anni, cedendo raramente alla tentazione d’intraprendere progetti più lunghi. Anche se nell’introduzione a "The story of John Cheever" definì la raccolta come una rigorosa documentazione della propria immaturità, non scambiò mai la brevità con la superficialità (o all’opposto la lunghezza con la profondità).



In Cheveer, ancor prima della storia o dei personaggi o dei temi, a colpire è proprio il rispetto per la forma racconto, il culto di poter dire ciò che si ha da dire con il minor numero possibile di parole. E non c’è dubbio, cosa a onor del vero assai bizzarra, che i suoi racconti siano più celebri dei suoi romanzi (in questa speciale categoria di freaks letterari, forse soltanto Maupassant riesce a tenergli testa). Sono racconti che parlano della doppiezza di una certa borghesia WASP che tende a predicare bene e razzolare male o, se si vuole una lettura più sottile, di quanto gli uomini adorino rendersi infelici.



Tornando all’intervista di Ossining nella primavera del 1969, Cheever aveva anche dichiarato: "La narrativa deve illuminare, esplodere, ristorare. Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre all’eccellenza". Qualcuno al New Yorker gli insegnò che bisognava togliere l’ultimo paragrafo per ottenere un buon finale, così Cheever nei lavori successivi cominciò a domandarsi: "Stavolta che cosa posso scrivere in meno?" Nella risposta risiede tutta la destrezza dello scrittore di racconti.



Twitter: @LuRicci74
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