Mafia a Viterbo, definitive le condanne per Ismail Rebeshi e Giuseppe Trovato

Mafia viterbese
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Mercoledì 1 Febbraio 2023, 02:00 - Ultimo aggiornamento: 17:35

Nessuna sorpresa. Nessun ribaltamento dell’ultimo minuto. La mafia a Viterbo c’era. Era presente e si era radicata. La parola fine sull’associazione a delinquere di stampo mafioso la mette la Cassazione, che ieri, in tarda serata, ha emesso la sentenza. L’ultima. Confermando in toto quando già affermato dal gup di Roma in primo grado e dalla Corte d’Appello.

Mafia viterbese, oggi ultimo atto in Cassazione

Definitive le condanne per Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi e per tutti i gregari. Il boss Giuseppe Trovato condannato a 12 anni e 9 mesi, il capo in seconda Ismail Rebeshi a 10 anni e 11 mesi, Gabriele Laezza: 7 anni, Spartak Patozi 8 anni e 8 mesi, Sokol Dervishi 4 anni e 6 mesi, Gazmir Gurguri: 4 anni e 8 mesi, Shkelzen Patozi: 6 anni e 4 mesi Fouzia Oufir 5 anni, Luigi Forieri a 3 anni e 6 mesi. 


Quella nata e cresciuta a Viterbo è la prima contestazione e da ieri anche certificazione di una mafia nata in città; che per due anni è riuscita a sopravvivere grazie alla paura e spesso al silenzio della vittime. A Viterbo fino al 2017 avevano solo trovato “riparo” malviventi legati a clan. Come i killer di camorra che si erano nascosti a Ponte di Cetti per sfuggire all’arresto o qualche malvivente legato ai Casamonica che aveva scelto la bassa Tuscia come dimora. Ma mai uomini mafiosi avevano operato e fatto di questa città la loro casa e in questa città i loro interessi. 

La giornata di ieri è inizia al mattina con una lunga requisitoria e una lunga discussione delle parti. La Procura generale aveva chiesto il rigetto di tutti i ricorsi presentati e la conferma delle pene inflitte dalla Corte d’Appello. Mentre le difese, sopratutto quella di Giuseppe Trovato, tramite l’avvocato Giuseppe Di Renzo, hanno discusso sottolineando l'inesistenza dell’associazione mafiosa, la mancanza dei requisiti essenziali, e l’inattendibilità delle dichiarazioni fatte dal pentito Sokol Dervischi.

Alle 22,30 la sentenza, dopo più di 6 ore di camera di consiglio.

Per la Cassazione i ricorsi presentati dalle parti sono tutti inammissibili. Per i supremi giudici quella capeggiata da Ismail Rebeshi e Giuseppe Trovato era un’associazione mafiosa. Anzi, «un 416 bis da manuale» come l’aveva definita in udienza il pm antimafia Giovanni Musarò; descrivendolo come un caso che avrebbe potuto far scuola anche senza tirare fuori le tradizioni e le sintomatologie delle mafie storiche. Il primo a capirlo fu il pubblico ministero Fabrizio Tucci, che ai tempi delle prime indagini era ancora in servizio alla Procura di Viterbo. Il magistrato leggendo le informative dei carabinieri inviò subito tutto alla Dda di Roma. Qui le carte finirono tra le mani del collega Musarò e insieme iniziarono a coordinare il resto delle indagini. 

I capisaldi del 416 bis, inquadrato dalla pubblica accusa nelle piccole mafie e riconosciuto come associazione a delinquere di stampo mafioso, sono molti. Ma alcuni sono più lampanti degli altri. L’utilizzo delle teste di agnello mozzate, lasciate come minaccia sugli usci o sui parabrezza delle auto delle vittime, ricorda molto gli usi della ‘ndrangheta. E Giuseppe Trovato questo lo sapeva molto bene. «Questa disse il boss a Rebeshi la prima volta che lasciarono la testa di agnello - è una cosa che si fa al sud». Intendendo un avvertimento che arriva subito a destinazione perché chi riceve questo tipo di minaccia sa perfettamente che non è con un viterbese che ha a che fare, ma con un mafioso. 

L’altro connotato tipico, sottolineato più e più volte dai magistrati e confermato fino al terzo grado di giudizio, è l’aspetto legato al recupero credito e alla risoluzione delle controversie.

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