Mafia viterbese, i capi Trovato e Rebeshi ricorrono in appello

L'arresto di Giuseppe Trovato
di Maria Letizia Riganelli
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Venerdì 30 Ottobre 2020, 07:10 - Ultimo aggiornamento: 31 Ottobre, 12:04

Mafia viterbese, i capi ricorrono in appello. Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi, tramite i loro difensori Giuseppe Di Renzo e Roberto Afeltra, lo scorso 20 ottobre hanno depositato il ricorso alla Corte d’appello di Roma.
Motivo principale: l’insussistenza dell’associazione a delinquere di stampo mafioso e dell’aggravante del metodo mafioso.

L’11 agosto scorso Trovato e Rebeshi, insieme a diversi sodali, sono stati condannati dal gup del Tribunale capitolino rispettivamente a 13 anni e 4 mesi e a 12 di carcere. Oltre 50 i capi d’imputazione per cui sono stati giudicati responsabili. «Abbiamo presentato appello - spiega l’avvocato Giuseppe Di Renzo - in ragione del fatto che la sentenza di primo grado è totalmente assertiva e apodittica. Nonostante sia diligente nel dar conto degli elementi raccolti, li lascia privi di argomentazione motivatoria. Inoltre, è erronea nell’affermazione della sussistenza dell’associazione mafiosa e dell’e aggravante speciale del metodo mafioso».

Dello stesso avviso il difensore di Rebeshi che ha depositato l’appello sostenendo l’inesistenza della mafia a Viterbo. Oltre ai due capi anche altri sodali hanno dato mandato ai loro difensori di procedere. Per tutti il punto principale è l’associazione a delinquere di stampo mafioso.

Il 416 bis che per la prima volta è stato contestato, e confermato in primo grado, nel capoluogo della Tuscia. L’obiettivo è smontarlo. Un po’ come successe appena qualche anno fa con la vicenda di Mondo di mezzo, quando il primo grado riconobbe l’associazione mafiosa e l’Appello no. 

Secondo la difesa il giudice Emanuela Attura sarebbero stato precipitoso e avrebbe esaminato solamente le prove funzionali alla propria visione. Non solo, verrebbe meno anche il caposaldo dell’omertà. Le vittime, secondo la difesa di Trovato, non sarebbero state reticenti e non avrebbe risentito di paura o costrizione. E la comparazione con la mafia di Ostia non reggerebbe. 

«E’ evidente - si legge nell’appello - che la tanto decantata “fusione” tra Trovato (da solo, interessato ai compro-oro) e il gruppo “albanese” (dedito allo smercio di stupefacenti e alla gestione dei locali notturni per stranieri), non ha mai trovato un fine o una organizzazione comune, limitandosi di contro alla semplice concorrenza nei singoli reati». Fuori discussione anche l’ipotesi che Giuseppe Trovato sia stato il capo della consorteria.  Presto per capire cosa decideranno i giudici della Corte d’appello. La sentenza dovrà essere emessa entro un anno da quella di primo grado.

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