Mick Rock, il fotografo delle rockstar: «Per me conta solo il carisma»

Mick Rock, il fotografo delle rockstar: «Per me conta solo il carisma»
di Simona Orlando
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Giovedì 4 Maggio 2017, 13:17 - Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 12:33
Un tizio salta sul vagone della fama, va a folle velocità, quasi muore, sopravvive solo per raccontare la sua storia. Potrebbe riassumersi così la trama di The Shot!, il nuovo documentario su Mick Rock (nelle sale americane e disponibile on demand), un destino nel cognome dell’’uomo che immortalò gli anni ’70, da protagonista non da periferico. C’è molto di più, è la celebrazione di uno spirito e dell’ossessione di essere unici anche a rischio di spettacolari fallimenti. Grazie a lui abbiamo ricevuto le foto di Bowie prima e dopo Ziggy, Mick Jagger a cena con Andy Warhol, gli Stooges più scatenati e centinaia di copertine di dischi e pose leggendarie. Dai sotterranei dei Velvet Underground ai pianeti di Starman, tutto è rimasto impigliato nel suo obiettivo. Oggi 69enne Rock fa mostre in tutte il mondo (Argentina, Giappone poi in trattativa con l’Italia) ed è pronto a pubblicare la nuova edizione di “Transformer” (Genesis Publications, ed.limitata a 2000 copie www.TransformerBook.com), libro scritto insieme a Lou Reed dopo lunghe passeggiate notturne per New York, e arricchito da 50 immagini inedite.


«Non mi interessa l’anima, ma l’aura». Continua ad essere il suo punto di vista?

«Sì. La vita personale non conta per me. Conta il carisma, la speciale energia elettromagnetica che emanano i soggetti, in genere i cantanti. Li riconosci perché vedi la loro proiezione. David Bowie e Freddie Mercury suonavano davanti a 100 persone e si comportavano come se ne avessero milioni. Si percepivano grandi, lo sarebbero presto diventati».

Il più lontano, in privato, dal personaggio pubblico?

«Lou Reed. Un uomo dolce, con grande senso dell’umorismo. I giornalisti lo temevano. Se qualcuno non aveva fatto bene i compiti o poneva domande stupide, lui sapeva essere un bastardo. Per essere suo amico, non dovevi essere pigro. Se però ti dava la sua fiducia, era incredibilmente leale e di sostegno. Non lo vedevo e sentivo per mesi e all’improvviso compariva a una mia mostra».


A lui e Bowie ha dedicato il documentario The Shot.

«Due amici geniali. Bowie uno spirito illuminato, Lou poeta, un Baudelaire dei nostri tempi. Hanno cambiato il modo in cui la gente pensava, ebbero grande impatto sulla cultura, abbatterono il tabù della sessualità, e le loro canzoni sembrano scritte oggi».


Hanno mai desiderato una vita normale?

«A tratti entrambi hanno pensato che il talento fosse una maledizione. La gente si aspettava troppo, chiedeva implacabile creatività non per un disco o per un anno, per decenni»


Dove pensa che siano ora?

«Mi aspettano dall’altra parte della strada. E intanto sono ancora nel mondo che hanno lasciato, il tempo è stato forgiato dal loro suono»


Come faceva ad avere rapporti bilanciati con personalità così forti, senza essere uno yes man?

«Li conoscevo da prima che diventassero famosi, non potevo fingere di essere qualcun altro. Sul tavolo c’era la comunicazione con altri esseri umani, ed eravamo tutti così giovani, una cultura nuova, ribelle, inclusiva. David, Lou, Iggy, accettavano le persone più strambe e per questo ci rappresentavano. Ho seguito il flusso, senza farmi troppe domande, non sapevo che avrei fatto foto durevoli, le facevo e basta».


Ebbe accesso agli eccessi. Quanto foto ha che nessuno mai vedrà?

«Gli scatti segreti sono molti di più di quelli rivelati. Non ero un fotografo in cerca di sensazionalità. Nessuno pensava alle implicazioni che potevano avere le foto, scattavo in bagno, in camerino, in qualsiasi situazione ma rispettando i miei amici».

Portobello Road 1975. Rod Stewart, Mick Jagger, Ron Wood, fermati dalla polizia.

«Era una festa nella villa di una ricca signora. Baldoria fino all’alba. Scattai la foto appena arrivarono gli agenti. Il giorno dopo Rod mi chiamò quasi deluso, perché non mi era venuto in mente di venderla ai giornali».


Lo scatto più fortunato?

«Lou Reed, copertina di Transformer. Tutti pensano che sia una foto posata invece la scattai alle prove del concerto. Il giorno dopo, stesso posto, immortalai Iggy Pop e divenne la copertina di Raw Power. Furono le mie 24 ore di gloria»


Quello a cui è più legato?

«La mia prima foto di Syd Barrett, in bianco e nero, nel suo appartamento. Mi commuove, perché era il mio inizio e perché stavo con lui, poeta lunatico. Fu Syd ad instillarmi il senso del magico».


Il più fotogenico?

«Bowie, anche prima di Ziggy Stardust. Riusciva a farti vedere come si vedeva lui. Era lui a comandare la foto, non tu a scattarla»


Aneddoti sul set di Rocky Horror Picture Show?

«Fra una scena da pazzi e l’altra Richard O’Brien, che lo aveva scritto, composto e faceva la parte del maggiordomo, non faceva che dirmi: “Non è divertente, è un film totalmente fuori dal mondo. Non funzionerà mai».


Il momento più divertente?

«Troppi per ricordarmene. Nel 1996 ebbi un attacco cardiaco e l’infermiera mi raccontò che sotto anestesia cantai Rock ‘n’ Roll Suicide di Bowie. Al risveglio i primi fiori che trovai furono quelli mandati da lui e da Lou».


Lei ha collezionato tre infarti prima dei 50 anni. Conseguenza delle droghe?

«Le droghe negli anni ’70 erano ovunque, la normalità. Mai fumato sigarette, facevo già yoga, poi prendevo qualche acido, mai eroina, mi aveva tolto Syd Barrett e per me era la sostanza della morte. Preferivo le stimolanti e poi non dormivamo mai, la privazione del sonno era quasi un’altra dipendenza. Volevamo esplorare i limiti, ma mai pensammo di morire, mai lo desiderammo. The Shot inizia con me sul letto di ospedale, in arresto cardiaco, che rivedo il mio passato. L’ho detestata quella scena»

La morte ha un senso diverso per chi vive pericolosamente?

«Non è che gli artisti debbano per forza morire giovani, però spesso per loro l’arte è più importante della vita, ci si consumano, la roulette russa gira con quell’intensità lì. Alcuni non ce l’hanno fatta, altri hanno resistito oltre l’immaginabile, io sono un sopravvissuto».

Com’è stato l’incontro con Bob Marley?

«Fugace. Era il 1975, Hammersmith Odeon a Londra, nel backstage mi presentai a questo uomo minuscolo ma con una personalità gigantesca, al punto che sembrava altissimo. Prendeva la musica molto sul serio e quando cantava riusciva a farti sentire elevato».

Realizzò la copertina iconica di “Bohemian Rhapsody” dei Queen. Come andò?

«Freddie Mercury volle mettersi in posa come Marlene Dietrich in “Shanghai Express”. Era un uomo riservatissimo, non così sicuro, si risolveva sul palco. Prendevamo insieme il tè delle cinque, amava il gossip su Lou e David. All’epoca non si menzionava mai la sua bisessualità. Viveva con Mary, l’unica persona di cui si fidava ciecamente».

Rispetto agli altri, i Sex Pistols le sembrarono una truffa?

«Fantastici. Non sapevano fare niente e lo facevano benissimo».

Chi avrebbe voluto fotografare e le è sfuggito?

«Keith Richards al tempo di “Gimme Shelter”, il primo Dylan, Lennon, ma soprattutto Elvis. Mi consolo pensando che fui il primo a fotografare Bowie, mentre si vestiva, truccava, specchiava. Mentre si scopriva. Nel ‘72 mi elesse suo fotografo personale, significava stare sempre in giro e non essere pagato ma l’avventura era assicurata».

Negli ultimi 20 anni ha fotografato tutti, da Lady Gaga ai Daft Punk, eppure la stoffa della leggenda sembra scucita…

«E’ tutto cambiato, con internet niente è nascosto, tutto è esposto ed è più difficile sviluppare una mistica. Chissà che il futuro non ci riservi soprese, d’altronde dopo gli anni ‘70 nessuno credeva in novità clamorose e invece spuntò Prince».

Crede ancora nel potere rivoluzionario del rock?

«Sono una sua creatura. Senza, non sarei mai stato un fotografo. L’ho seguito come un rabdomante. Non sapevo dove stavo andando ma ci volevo assolutamente andare».
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