Amir Issaa, il rapper romano si racconta in un libro:«Ecco la mia vita quotidiana»

Amir Issaa, il rapper romano si racconta in un libro:«Ecco la mia vita quotidiana»
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Mercoledì 31 Maggio 2017, 19:11 - Ultimo aggiornamento: 1 Giugno, 16:01
Più che un'autobiografia, un vademecum per l'integrazione: è “Vivo per questo”, il primo libro del rapper romano Amir Issaa,  per Chiarelettere con un sottotitolo che più esplicito non si può: «Non mi devo integrare, io qua ci sono nato. Io non sono mio padre, non sono un immigrato. Non sono un terrorista, non sono un rifugiato. Mangio pasta e pizza, sono un italiano».

Madre italiana e padre egiziano, cresciuto a Tor Pignattara, Amir da 15 anni è uno dei protagonisti della scena hip hop italiana, ma è anche in prima linea come portavoce dei ragazzi G2 con il progetto «Power to the people», che lo ha visto al fianco di associazioni come Save The Children, fino a incontrare l'ex Presidente Napolitano per discutere di Ius Soli.

«L'immigrato e il figlio dell'immigrato - scrive in “Vivo per questo” - vivono problemi totalmente diversi. Il mio, comune a tanti, è che sono e mi sento italiano, anche se molti non sono d'accordo. Secondo loro, non conta la cultura in cui sei cresciuto ma il sangue che ti scorre nelle vene». Questo, però, succedeva qualche lustro fa, oggi invece Amir si sente «molto fiducioso sul futuro dell'Italia, dove i bambini stanno crescendo insieme: per loro non c'è differenza tra Marco e Mohammed, per loro il nostro paese è fatto di persone con nomi e colori diversi. Quando ero piccolo io, a scuola c'erano pochissimi bambini con genitori non italiani, questo è un momento di transizione perché c'è chi ha vissuto un'Italia diversa, ma per i giovani no, loro hanno amici di origini diverse e questa - sottolinea - è una rivoluzione culturale, è il corso della storia che va avanti».
E che supera la politica, che invece «gioca sulle paure delle persone e non dà una rappresentazione fedele della realtà, che si capisce andando per le strade, nelle scuole ed è meglio di come viene rappresentata». Anche i media hanno le loro colpe: «in tv spesso la seconda generazione viene associata al terrorismo islamico, ma i ragazzi che vivono nelle periferie hanno gli stessi problemi dei loro amici italiani: il lavoro precario, l'università, la necessità di andare all'estero per immaginarsi un futuro. In molti poi hanno genitori cattolici o protestanti, anche per questo l'equazione seconda generazione=terrorismo è stupida e fuorviante».

Lui, che è andato a scuola dalle suore, racconta che «se vado a prendere la metro i militari mi fermano, ma io ho la stessa paura di un attentato che hanno loro. È uno stereotipo e va combattuto, come le persone che non sanno
scrivere in italiano e sui sociali mi insultano dicendomi «torna al tuo paese». Sono gli stessi che dopo tragedie come quella di Manchester associano l'essere di origine straniera all'essere estremisti, quando invece gli attentatori «sono persone problematiche cui è facile fare il lavaggio del cervello».
Contro queste derive, è necessaria una «rivoluzione culturale, come quella che parte dal basso a Tor Pignattara, dove iniziative come il festival del cinema multietnico o la rassegna “Taste the world” dove le donne portano cibo dai loro paesi, aiutano le persone a incontrarsi e a conoscersi».

 
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