Quella di Piccolo una autofiction che racconta quarant'anni d'Italia

Lo spoglio dei voti nel ninfeo di Villa Giulia
di Renato Minore
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Venerdì 4 Luglio 2014, 16:33
Dove finisce la fiction nel romanzo di Francesco Piccolo che allo sprint i lettori dello Strega hanno preferito alla storia raccontata da Antonio Scurati di una difficile paternità e di un amore assai incrinato? E dove inizia l'autoanalisi, la testimonianza anche individuale in una vicenda, dove privato e pubblico confuso e impazzito - possono servire da specchio di un'intera generazione? Il desiderio di essere come tutti è a prima vista un’autobiografia politica in cui chi si assume (ma quasi all’insaputa) la responsabilità di scriverla comunque «percepisce se stesso come appartenente a una comunità». O, meglio, un autoritratto politico sincero fino alla brutalità e del tutto spiazzante, illuminato da vicende collettive e con cesure irrevocabili, tappe di crescita o d’involuzione. Che ripercorre, senza molto spazio per l’invenzione pura, l'avventura politico-sentimentale di un "io" molto ma molto autobiografico. Così, ecco il suo contrasto con il padre, che non lo vuole comunista. Ecco il tentativo di essere accettato dai "compagni", che non lo tollerano borghese. Ecco il desiderio di stare solo, a piangere il leader politico improvvisamente scomparso. Ecco gli anni della formazione sentimentale collegati con ciò che accade nel Paese.



RIVISITAZIONE

Piccolo si muove nel suo ieri e nel suo altro ieri di giovane meridionale con salde radici borghesi, dove i grandi eventi della vita pubblica sono connessi a ciò che ciascuno stava facendo il giorno in cui avvenivano. E li specchia in ciò che accadde a lui proprio mentre questi si svolgevano. Una «rivisitazione dei fatti» sia personali sia comunitari, fatta come rovesciando il cannocchiale con cui si guardava e si guarda il proprio vissuto e la sua sfuggente mobilità. In questo modo si mettono a fuoco gli obiettivi con «lo sguardo di ora», più che con il «pensiero di allora». Non serve l’algida fissità della perlustrazione nella memoria, magari con qualche ninnolo proustiano come condimento, ma serve la capacità di ricostruire tutto «a bocce ferme».

Ecco, a tracciare il confine, due personaggi-simbolo degli ultimi quarant'anni di storia: appunto Berlinguer e Berlusconi. Da un lato la "vita pura" ai tempi del segretario comunista, dall’altro quella "impura" nel più recente ventennio. In fondo, raccontandosi, Piccolo racconta la difficoltà di «stare in mezzo», diviso tra comunismo e sentimento borghese della vita, desiderio di altezze irraggiungibili e incalzare dell’ossessione per l'impegno che è valvola di sfogo di una superficialità da estirpare, e dalla quale ha creduto, sempre, di doversi affrancare e difendere. E che è rappresentata dalla figura femminile (assai azzeccata) di Chesaramai, la «sdrammatizzatrice dell’umanità», che della purezza, invece, riconosce e insegna le insidie. Ma il problema resta. Come liberarsi, nonostante tutto, dall’idea fissa della purezza, sia sul piano personale sia sul piano politico? Alla fine Piccolo esprime il desiderio che una volta provò trovandosi da solo nella Reggia di Caserta vuota, dove a nove anni con alcuni amici aveva scavalcato il muro di cinta. Uno degli episodi più felici del libro come le pagine sul terremoto, quelle sul colera e quelle sulla morte del primo amore proprio il giorno di San Valentino. L’autofiction vuole essere racconto anche civile su quarant’anni di storia del nostro Paese. E il desiderio è anche quello di essere come «tutti» (il titolo de “L’Unità” sui funerali di Berlinguer), come Camilla Cederna e Giovanni Leone, Robert Redford e Barbra Streisand, il Gassman della Terrazza, Sophia Loren in carcere, la molto ortodossa fidanzata gauchista che rifiutò il suo frivolo regalo. Uno Snoopy di pelouche.
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