Anatomia del best seller, svelati i segreti dei libri più venduti

Luca Ricci
di Luca Ricci
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Venerdì 26 Giugno 2015, 18:14 - Ultimo aggiornamento: 4 Luglio, 17:09
In “Anatomia del best seller” (Laterza 2015, pag. 180, 16,00 €) il professore di Comunicazione narrativa e Semiotica Stefano Calabrese prova a (ri)fare il punto sulle scritture da classifica, in particolare sui best seller mondiali che prescindono dalla lingua d’origine e riescono a imporsi globalmente, vendendo milioni di copie (in questo senso, il maggiore bestsellerista italiano è il topo topologo Geronimo Stilton con 100 milioni di copie, smerciate soprattutto negli “English speaking countries”).



Le prerogative dei best seller, cioè di quelle scritture che ormai guardano a un mercato sovranazionale, sono ben note, e il saggio di Calabrese, pur senza impennate, le mette in fila tutte: la concezione dell’autore è sostituita da quella di “brand name” (non c’è più l’autorialità dello stile, ma vale il libro firmato come un capo d’abbigliamento alla moda); la lingua non deve creare resistenza alla divulgazione del romanzo, il trionfo quindi dello storytelling impersonale (non esistono più le narrazioni a chilometro zero, più difficili da esportare se non giocano molto sull’elemento folcloristico); la separazione netta dei generi letterari che salta a favore di una commistione in grado di produrre super-narrazioni, meglio se seriali, fenomeno chiamato anche "crossover" (per esempio è possibile preparare una trilogia con dentro rosa, giallo, nero e una spruzzata d'avventura).



Il saggio talvolta si limita a una descrizione della fortuna editoriale dei grandi successi del recente passato. Sfilano capitolo dopo capitolo le fortune di J.K. Rowling (500 milioni di copie venute), Dan Brown (50 milioni di copie venute), E.L. James (10 milioni di copie vendute nel solo 2012) e compagnia. Sarebbe forse stato più interessante prescindere dai singoli successi commerciali per riflettere sulla cultura bestsellerista. Quello cioè che è veramente pericoloso rispetto all’avvento delle narrazioni globali con tirature spaventose (nel secondo trimestre del 2011, in piena crisi mondiale, le vendite di romanzi in Usa hanno registrato un + 44%), è che vengano spacciate per letteratura. Il nostro orizzonte culturale sta mutando velocemente: è come se l’umanesimo ormai non potesse più dirci niente di nuovo sull’uomo, e i libri servissero unicamente per fare utili.



In America la classifica dei libri più venduti su “The Publishers Weekly” ha due liste che separano i prodotti “mass market” (storie dozzinali) da quelli “trade” (storie di qualità), ma sempre più di frequente assistiamo a un processo culturale che vorrebbe spacciare la paraletteratura (che fa utili) per letteratura (che è in perdita). E’ un processo che coinvolge tutto il sistema culturale, la filiera editoriale, i media, i premi letterari. Così, in Italia, è possibile che critici di giornali importanti definiscano Luciano Ligabue il Carver italiano, o che Anna Premoli vinca il Bancarella, o che Donato Carrisi venga invitato a leggere in Campidoglio al Festival Letterature. Ci si vuole convincere che la quantità sia l’unico parametro sensato (di conseguenza ciò che vende sarà anche bello), per non avere più il fastidio di doversi occupare anche della letteratura.



Twitter: @LuRicci74