This Must Be The Place
tono umoristico e sostanza tragica

di Fabio Ferzetti
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Venerdì 21 Ottobre 2011, 22:49 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 19:04
Come mai, con tutti i vizi che mi sono concesso, non ho mai fumato? - che sei ancora un bambino. Solo i bambini non hanno voglia di fumare». La chiave di This Must Be The Place arriva così, quasi di sbieco, in uno scambio che capiremo solo alla fine. È una battuta tipica di Paolo Sorrentino, che costella da sempre i suoi film di aforismi, e paradossi. Anzi ha fatto del gusto per l’intelligenza e la digressione un po’ la sua firma.



Normalmente infatti i personaggi cinematografici non riflettono molto su di sé, se lo fanno spesso non capiscono nulla, e comunque non lo fanno ad alta voce. Nei film di Sorrentino invece, da L’uomo in più al Divo passando per Le conseguenze dell’amore, il più eloquente in materia, tutti parlano molto. E parlando non solo si scoprono, ma enunciano verità generali che le immagini integrano, confermano e talvolta contraddicono.



Il Cheyenne interpretato con incredibile grazia e umorismo da Sean Penn, infatti, non ha nulla di infantile a prima vista. È una rockstar ormai sui 50 anni che mette ancora rimmel e rossetto ma non suona da un’eternità e trascina una vita vuota insieme a una moglie stravagante (adorabile, esilarante Frances McDormand) e a un colorito gruppo di personaggi nella sua lussuosa villa in Irlanda. A questo piccolo mondo bloccato in un lutto strisciante, Sorrentino dedica quasi metà film. Un lungo prologo tutto da godere, che può sembrare slegato dalla seconda metà, la caccia all’aguzzino del padre nel cuore degli Usa, e invece è profondamente necessario.



In Irlanda infatti il tempo si è fermato. Il catatonico Cheyenne, che non ha figli, gioca a fare la star in disarmo perché non sa fare altro; gioca a squash con sua moglie; gioca con l’idea di produrre l’album di una band di giovanissimi, o di fidanzare la fan triste e bella che gli trotta dietro, sorella di un ragazzino scomparso (fin troppo) misteriosamente. Insomma gioca e basta. Mentre per far ripartire il tempo bisogna tornare indietro, capire chi era il padre che non vedeva da secoli e ormai è morto, scoprire il suo passato (il lager) e i suoi sogni (catturare l’aguzzino nazista, ancora vivo chissà dove, come dicono i suoi diari). In breve: bisogna passare all’azione. «La paura ci salva quasi sempre. Ma prima o poi nella vita devi scegliere un momento in cui non avere più paura».



Così, dalle solitudini irlandesi, svelate da geniali movimenti di macchina, passiamo ai grandi spazi americani. Dal mondo fittizio della musica, a quello definitivo della Storia. In un lungo viaggio che ha come perno il toccante incontro-confessione di Cheyenne con David Byrne, nume tutelare del film con la sua presenza e le sue canzoni (il monologo rivelatore, vedi Andreotti nel Divo, è un’altra specialità di Sorrentino). Qui inizia anche la parte delicata, perché l’America è il paese più raccontato del mondo e fra parenti ebrei, cacciatori di nazisti boriosi, incontri bizzarri in posti sperduti fra il Michigan, il New Mexico e lo Utah (con nomi che cantano: Bad Axe, Alamogordo, Huntsville), si poteva scivolare nel facile.



Mentre Sorrentino (e il suo co-sceneggiatore Umberto Contarello) tengono in bell’equilibrio tono umoristico e sostanza tragica. Con qualche affondo notevole (la figlia innocente del nazista; l’armaiolo filosofo che spiega il legame fra assassinio e impunità). Per spingersi senza maiuscole su terreni decisivi: cosa separa la punizione dalla vendetta, in nome di chi e cosa applichiamo la legge, come possono convivere bellezza e orrore? Hanno ragione i fratelli Coen: This Must Be The Place è molto bello. Di più: è la prova che si può trapiantare felicemente il cinema di Sorrentino in un altro mondo e un’altra lingua. Se poi sia un punto d’arrivo o un punto di partenza, è presto per dirlo.



THIS MUST BE THE PLACE





di: Paolo Sorrentino

con: Sean Penn, Judd Hirsch, Kerry Condon, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Frances McDormand
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