Il regno d'inverno, un giallo dell'anima in Cappadocia, palma d'oro a Cannes

Il regno d'inverno, un giallo dell'anima in Cappadocia, palma d'oro a Cannes
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 15 Ottobre 2014, 14:46 - Ultimo aggiornamento: 18 Ottobre, 20:44

Credete che solo le serie tv abbiano il tempo di sviluppare psicologie e personaggi degni di questo nome, come vuole un diffuso luogo comune? Provate a immergervi in questo film che all’ultimo festival di Cannes ha vinto la palma d’oro. Dura tre ore e un quarto, cioè come due film interi o quattro puntate tv. Ma è l’esatto opposto di una serie. Una prova di pazienza (e di attenzione) che ripaga lo spettatore conducendolo a profondità inusuali.

Cechov e Bergman

Un film pieno di parole, di digressioni, di doppi fondi, che sembra girare in tondo e invece porta lontano. Purché si sia disposti a seguire un copione che parte da tre novelle di Cecov, fuse e riadattate ai nostri giorni, per spingersi in una zona che non può non far pensare a Bergman. Anche se invece che in Svezia o nella Russia dell’Ottocento siamo in Cappadocia, oggi. Una regione abbastanza isolata perché le relazioni sociali, o per dirla tutta i rapporti di classe, abbiano qualcosa di arcaico e di particolarmente scoperto. Benché il cuore del film non siano i rapporti tra gli individui ma il dialogo che ognuno dei personaggi (ognuno di noi) intrattiene con quella che una volta chiamavamo, un po’ sbrigativamente, coscienza.

Il regista

Lo ha diretto il geniale regista turco di C’era una volta in Anatolia (nonché di Uzak, Le tre scimmie, Il piacere e l’amore, quasi tutti sceneggiati con sua moglie Ebru Ceylan, vedendo il film capirete che non è un dettaglio marginale).

Ed è costruito su un numero ristretto di personaggi molto ben definiti e caratterizzati, proprio come le più amate serie tv.

Però essendo cinema, e non televisione, non lavora sulla riconoscibilità (di temi, personaggi, conflitti), bensì sull’ambiguità. E non concentra tutto in scene più o meno d’azione, non scandisce il racconto con accelerazioni e colpi di scena, anche se ne contiene un certo numero, ma si perde - apparentemente - dietro alle discussioni tra i protagonisti.

Maschere

Che battono e ribattono su due o tre punti fondamentali, la bontà, la carità, l’apertura verso gli altri e verso il cambiamento. Ma poco a poco finiscono per scavare dentro i personaggi, ne denudano le contraddizioni, li costringono almeno per un attimo a calare la maschera e a prendere coscienza della propria profonda, forse invincibile ipocrisia. Quale che sia, ecco il bello, la loro collocazione sociale.

Ma stiamo semplificando, mentre la forza del Regno d’inverno sta proprio nel suo procedere a cerchi concentrici. Stringendo d’assedio i personaggi mentre Ceylan ci porta in paesaggi via via più maestosi e distanti, innevati e enigmatici (l’inverno naturalmente è anche una stagione della vita). Punteggiati da apparizioni di animali, cavali, lupi, lepri, corvi, che corrispondono ogni volta a uno “scatto” nella coscienza del protagonista.

Reazione a catena

Il signore, molto contestato, di questo piccolo regno, è infatti un maturo possidente di nome Aydin che oltre a un grande albergo tra i monti, semideserto nei mesi freddi, possiede beni in tutta la regione ed è molto attento alla propria immagine di uomo facoltoso e benevolo, sempre pronto ad aiutare i bisognosi. Anche se poi, con la scusa che non può certo gestire personalmente tutti i suoi affari, si dimostra inflessibile con un inquilino moroso e già pieno di guai. Senza immaginare la reazione a catena che il suo atteggiamento scatenerà nell’inquilino e nei suoi familiari.

Vanità

Ma proprio questo in fondo è il tema del film. Cosa sappiamo di noi stessi e di chi ci è vicino? Nulla o poco più. Cosa capisce il contorto Aydin, ex-attore con velleità creative, che collabora a un giornaletto di provincia per vanità e forse per noia, e accarezza il sogno di scrivere una grande Storia del teatro turco ma non si decide a mettersi all’opera... cosa capisce dunque quest’uomo inquieto e irresoluto di quella moglie giovane e bella che si ostina a fare anche lei la carità, ma senza consultarlo e quel che è peggio invitando a casa una torma di professori di provincia rumorosi e male in arnese?

Dostoevskij

Cosa sa, l’egotista Aydin, dei “poveri” che crede di aiutare e del mondo in cui vivono? E cosa capisce di quella sorella non più giovane e divorziata, che vive con lui e la moglie ma sembra essere l’unica in grado di guardare oltre le apparenze per chiedersi il senso profondo delle loro esistenze (bellissima la sua tirata sulla bontà e la necessità, paradossale, di non opporsi al male per sconfiggerlo, che sembra uscita dall’Idiota di Dostoevskij ma viene liquidata con un’alzata di spalle: cara, tu hai visto troppe soap. Come se oggi bastasse una battuta per archiviare secoli di filosofia e di dilemmi morali)?

Naturalmente, ripetiamolo, Il regno d’inverno non fa nulla per rendere la vita facile agli spettatori. E se il non meno fluviale C’era una volta in Anatolia alla fine funzionava come un thriller, per quanto espanso e dilatato, stavolta gli attori, tutti assolutamente straordinari, sono chiamati a dar corpo e profondità a personaggi e inquietudini così fieramente fuori moda, eppure così ostinatamente universali, che l’impresa risulta ancora più ardua. E appassionante.

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