Il diritto di uccidere, sparare o non sparare? Com'è difficile fare la cosa giusta al tempo dei droni

Il diritto di uccidere, sparare o non sparare? Com'è difficile fare la cosa giusta al tempo dei droni
di Fabio Ferzetti
4 Minuti di Lettura
Lunedì 22 Agosto 2016, 11:28 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 17:13


L'occhio sullo schermo e il dito sul grilletto. Come in un videogame anche se là fuori, molto lontano ma sempre a tiro, non ci sono figurine digitali ma persone vere. Persone che possono uccidere se non le fermiamo. E innocenti che possono morire, perché è difficile fermare gli assassini senza fare quelli che ci siamo ormai abituati a chiamare danni collaterali. Persone di cui non sappiamo nulla, ma che grazie a un film possono diventare più vere del vero. Come quella ragazzina di Nairobi, così graziosa, che gioca con l'hula hoop nel cortile prima di fare i compiti di matematica. Senza sospettare che proprio là dietro, a pochi metri da lei, sta per riunirsi un pericoloso gruppo di integralisti islamici.

INTEGRALISTI
Cosa ne sa di integralisti, lei che è così innocente da indignare il vicino devoto perché dimena i fianchi con l'hula hoop? Niente naturalmente, ma c'è chi invece sa tutto di loro e li segue da anni, passo dopo passo, per catturarli o magari ucciderli. Sono i militari, inglesi e americani, che da basi dislocate in vari punti del mondo, ora tengono nel mirino la casa, i suoi frequentatori, quel quartiere maledetto. E purtroppo anche lei, la piccola Alia, che proprio non vuole saperne di allontanarsi da lì....
Così il tempo passa, la casa si riempie di gente, la tensione sale alle stelle. I satelliti, uniti ai giganteschi database militari e ai potenti programmi di identificazione dei volti, cancellano gli ultimi dubbi. In quella casa non solo si nascondono terroristi ma si prepara un attentato suicida. Bisogna intervenire ma siamo in un quartiere densamente popolato, il missile di un drone potrebbe fare una strage.
Senza contare la piccola Alia, di cui uscendo dal film ci ricorderemo come della bambina dal cappotto rosso di Schindler's List. Uno di quei personaggi-bandiera che concentrano su di sé tutti gli orrori e le tensioni di un'epoca. Anche se qui non siamo nel passato, come nel film di Spielberg. Siamo nel presente. E il sudafricano Gavin Hood, già Oscar con Il suo nome è Tsotsi, poi regista di film molto diversi come Renditition-Detenzione illegale e X-Men le origini, non riscrive la storia ma indaga nelle zone d'ombra della nostra epoca ad alto tasso di visibilità e altissimo coefficiente di segretezza, malgrado gli Assange e gli Snowden.

IMMAGINI PER PENSARE
Tanto che Alia è solo una figura sullo sfondo, per quanto ben tratteggiata. Serve a farci saltare sulla sedia, ma i protagonisti del film, quelli che invece ci fanno pensare (come raramente succede al cinema) ai mille interrogativi morali posti dalla guerra fatta con i droni, così conveniente in apparenza, sono gli altri. I militari, che vogliono intervenire (non tutti), e i politici che invece frenano (non sempre). E non per umanità ma per timore delle conseguenze. Per cui consultano consiglieri legali, cercano qualcuno più in alto per decidere (con momenti anche grotteschi, non tutti necessari), vagliano i pro e i contro di tutte le possibili ipotesi.
In una delle scene più agghiaccianti, una delle colombe spiega che politicamente è di gran lunga preferibile che il tg della sera annunci decine di vittime dei terroristi, piuttosto che una sola bambina uccisa da un drone della Nato...
Ma è proprio questo il punto: e Il diritto di uccidere riesce a non fare sconti alla complessità dei problemi sul tappeto senza rinunciare alla suspense del thriller. Grazie all'abilità strepitosa del regista, capace di orchestrare a meraviglia i dubbi e i colèpi di scena che percorrono i diversi teatri delle operazioni (nessun effetto digitale manderà mai in pensione il caro vecchio montaggio parallelo) e alla bravura degli interpreti al completo, in testa i falchi Helen Mirren e Alan Rickman, qui purtroppo alla sua ultima apparizione, due figure tutt'altro che monodimensionali grazie alla sceneggiatura accuratissima di Guy Hibbert.
Si capisce che Hood non sia riuscito a farsi produrre il film dai grandi studios. Si capiscono meno due o tre scivolate retoriche (come i titoli di coda). Che però non guastano il film più informato e problematico in materia, oltre che appassionante, visto in questi anni. In sala da giovedì 25. E purtroppo più attuale che mai, anche se pensato e girato ormai diversi anni fa.