Incontrato durante un seminario universitario, a Bologna, trent’anni fa, aveva un’aria autorevole e carismatica, che incantava gli studenti. Aveva deciso di studiare la Bibbia come una qualunque opera letteraria, e aveva scritto “The Book of J”, partendo dal punto di vista dell’ipotetico io narrante. Lui la spiegava così: «L’adorazione occidentale di Dio – da parte di ebrei, cristiani e musulmani – è l’adorazione di un personaggio letterario». Erano i tempi di Jacques Derrida, del decostruttivismo, e in letteratura fiorivano postmoderni e minimalisti: fenomeni che Bloom non aveva mai preso molto sul serio. I suoi commenti sulle mode letterarie del momento erano memorabili. Trovava ridicolo paragonare Jonathan Franzen a Charles Dickens; di David Foster Wallace, pensava che fosse uno scrittore dotato, ma la sua opera «non arriva da nessuna parte». Dei suoi contemporanei salvava soltanto Philip Roth, Don DeLillo, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy.
Ribelle per natura, dalla vena ironica inesauribile, allergico ai computer, l’autore de “L’angoscia dell’influenza” cambiava metodi di studio senza mai aderire ad alcuna ideologia, ad alcun metodo specifico. E scriveva rigorosamente a mano, o dettava i suoi testi alla moglie. Si vantava, e molto, di non avere una scuola, né colleghi. Per lui la critica non aveva nulla a che fare con la filosofia, la politica, la religione: «Nei casi più alti è una forma di letteratura sapienziale, e quindi una meditazione sulla vita». Con una quarantina di libri, e i suoi corsi a Yale, Bloom è riuscito ad attirare e a formare generazioni di lettori, riuscendo a dimostrare che la critica può essere una forma potentissima, forse la più nobile, della letteratura.
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