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COVID

Covid un anno dopo, un medico e una paziente raccontano il loro rapporto: «Prima apprensione, poi organizzazione, le cure non s'interrompono»

Articolo riservato agli abbonati
11 Febbraio 2021 di Carla Massi (Lettura 5 minuti)

Un anno di Covid: prima apprensione e sconforto, poi organizzazione e sicurezza. Nella giornata mondiale del malato vi raccontiamo come è mutato con il Covid il rapporto tra medico e paziente. E lo facciamo con un'intervista doppia, incrociata tra un medico e un paziente. Il medico è Paola Rogliani, napoletana 50 anni e due figli, è professore di Malattie dell’apparato respiratorio all’università Tor Vergata di Roma e direttore dell’Unità operativa complessa di Pneumologia del Policlinico Tor Vergata. La paziente è Carmela Poto, 68 anni e sei figli, è nata e vive a Lioni (Avellino) È in cura all’Unità complessa di malattie respiratorie al Policlinico universitario di Tor Vergata di Roma per fibrosi polmonare idiopatica. Una patologia rara che colpisce 5 milioni di pazienti nel mondo. Ecco come hanno risposto alle nostre domande

Da un anno conviviamo con il Covid 19, qual è stato allora il suo primo pensiero?

Medico, Paola Rogliani: «Una folla di pensieri. Come riuscire ad organizzare in ospedale l’assistenza ai ricoverati Covid, come proteggere al meglio il gruppo che lavora nella nostra unità e come continuare a seguire i pazienti da casa visto che non potevamo rispettare il calendario delle visite. Tutto doveva essere deciso velocemente»

Paziente, Carmela Poto: «Una folla di pensieri. Come riuscire ad organizzare in ospedale l’assistenza ai ricoverati Covid, come proteggere al meglio il gruppo che lavora nella nostra unità e come continuare a seguire i pazienti da casa visto che non potevamo rispettare il calendario delle visite. Tutto doveva essere deciso velocemente»

La preoccupazione è stata per tutti in tutto il mondo, lei ha avuto paura?

M: «Paura direi di no, più che altro sono stata pervasa da una forte apprensione. La consapevolezza di dover essere sempre lucida, oltre a sollecitare una buona dose di inventiva, ha costretto me e tutti sanitari ad autogestirci studiando bene i fronti con i quali dovevamo ogni giorno fare i conti nell’emergenza»

P: «Sì, ho avuto paura. Direi che ho avuto tante paure diverse. Prima di tutto perché so di essere più fragile visto che la mia malattia riguarda proprio i polmoni. Temevo e temo di essere contagiata. Avevo paura, come tutti, per i miei familiari, mio marito, i miei sei figli che vivono in Italia e all’estero, i miei nipoti»

Temevate che la vostra relazione terapeutica si potesse interrompere?

M: «Abbiamo subito capito che dovevamo muoverci per mettere a punto la telemedicina, molti nostri pazienti vengono da lontano. Dovevamo mantenere il legame che avevamo creato negli anni con tutti quelli che seguivamo»

P: «Temevo che questo accadesse ma, al tempo stesso, come malata mi rendevo conto che c’erano tante altre persone colpite dal Covid e avevano bisogno di un intervento immediato. Ho frenato i miei timori e mi sono fidata dei “miei” medici»

Si è trovata a essere lei a rassicurare chi le stava accanto?

M: «In ospedale c’è stata la rivoluzione. Una ristrutturazione che ha trasformato il servizio di degenza in semintensiva. Dovevo sicuramente motivare la mia squadra, tra medici, infermieri e operatori sono quasi una quarantina di persone»

P: «Da quando è scattata l’emergenza ed è iniziato il lockdown ho capito che il mio compito era quello di proteggermi, curarmi come avevo sempre fatto e rassicurare gli altri che stavo bene. La famiglia mi è stata accanto ma io ero sempre la madre»

Medici e pazienti sono riusciti comunque a comunicare?

M: «È stato fatto tutto quello che si è potuto, superando ostacoli giganti, per seguire i pazienti colpiti dal Covid e gli altri. Alcuni medici sono stati incaricati di dedicarsi ai rapporti online per ascoltare problemi e preoccupazioni di chi non poteva venire»

P: «So di essere stata molto fortunata. Nei periodi più difficili parlavo con persone che venivano curate in altri ospedali e non avevano a disposizione neppure una linea telefonica di aiuto o un indirizzo mail. Sono sempre riuscita a comunicare»

Ha mai pensato di non farcela perché vedeva nero?

M: «La napoletanità ben radicata in me, mi ha aiutato nell’essere creativa e nel non mollare mai. Quando sembrava tutto nero c’erano i vecchi pazienti a rallegrarci. Da fuori ci facevano arrivare in ospedale pizza, mortadella e gelato»

P:  «Avere una malattia cronica polmonare per giunta rara ti fa diventare più forte e coraggiosa. Non puoi permetterti di mollare, soprattutto in quei momenti in cui sapevo che andare al pronto soccorso sarebbe stato un vero inferno»

Quali immagini ed emozioni le sono rimaste della fase più dura della pandemia?

M: «Confesso che ancora non ce la faccio a fare ordine tra emozioni e pensieri di questo ultimo anno. Tutto è netto e tutto è confuso. Peraltro siamo ancora in trincea anche se fortunatamente è iniziata la vaccinazione. In ospedale dobbiamo ancora tutti lavorare tanto in attesa di tempi migliori»

P: «Mi sento tranquilla e protetta. La paura del contagio ovviamente resta. Da marzo scorso sono riuscita a sottopormi ad una visita ad agosto e a una qualche giorno fa. Sono ancora preoccupata ma i timori di restare sola con la mia fragilità mano a mano si stanno allontanando e riesco anche io a dare serenità agli altri»

Da marzo scorso a oggi crede sia cambiato il rapporto tra medico e paziente?

M: «Per quanto riguarda me, direi di no. Ho lo stesso afflato di sempre nonostante intorno sia successo quello che tutti conoscono. Sono riuscita a mettere in pratica ciò che mi ha insegnato mio padre medico e mio nonno, medico anche lui, allievo di Giuseppe Moscati che è stato un uomo e un professore di rara umanità»

P: «Il mio rapporto è rimasto uguale. E, il fatto di non essere stata mai abbandonata, ha rafforzato il nostro legame di fiducia. Non si può capire quanto sia importante! Non so proprio come avrei fatto se, dall’altra parte, non avessi trovato una porta aperta. Come, invece, è accaduto a tanti»

Medico e paziente, c'è una cosa ancora non vi siete ancora dette?

M: «Mi sento di dire grazie a tutti quei pazienti che seguivamo prima del Covid e hanno capito la nostra condizione. Molti ci hanno sostenuto e partecipato al dolore. Sembra strano ma, quelli con patologie più gravi sono stati più comprensivi di coloro che, invece, soffrono di malattie meno impegnative. E grazie a tutti quelli che continuano a lavorare con me»

P:  «Continuo a dire grazie a tutti. Ai medici, agli infermieri, ai miei e alla sorte che, fino ad oggi, mi ha permesso di andare avanti abbastanza serena. Vivo in un piccolo centro, stare a casa è meno penoso che in città. Sopporto bene. Grazie alla grande famiglia che ho e all’affetto che mi danno. E grazie a me che riesco a tener duro anche quando è difficile».

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