Roma, l'economista Simoni: «È questione nazionale. Se riparte, traina tutta l'Italia»

Roma, l'economista Simoni: «È questione nazionale. Se riparte, traina tutta l'Italia»
di Diodato Pirone
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Lunedì 17 Agosto 2020, 07:34 - Ultimo aggiornamento: 16:55
Marco Simoni è un economista romano che, dopo la laurea alla Sapienza e nove anni di docenza alla London School of Economics di Londra, dal 2013 è stato consigliere economico nei governi di centro-sinistra con Carlo Calenda, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Ora, a 45 anni, insegna alla Luiss e fa la spola con Milano dove è presidente dell'Human Tecnopole, il centro di ricerca che si è insediato nei palazzi dell'Expo. Sul futuro di Roma ha scritto un breve ma solido saggio per Il Mulino che sarà pubblicato a settembre con alcune idee che anticipiamo in parte in questa intervista.
Professor Simoni, la crisi di Roma è dovuta all'economia, alla mancanza di idee, alla cattiva amministrazione, alla rassegnazione?
«La crisi di Roma è la crisi dell'Italia».
Cosa vuol dire?
«Che la debolezza economica di Roma è una delle ragioni della stagnazione italiana. L'Italia potrà tornare a crescere solo se Roma smette d'essere un peso e torna a svolgere il ruolo di guida che compete a una Capitale. Roma è questione nazionale».
Belle parole, ma cosa impedisce alla Capitale di essere tale se non Roma stessa?
«Sento dire che al Campidoglio spetta far funzionare la metro e che se l'economia va male è colpa della globalizzazione. No. E' vero il contrario: in una fase di globalizzazione devi avere un modello locale che funziona per attrarre energie. Pensare che basti la buona amministrazione è sbagliatissimo: senza un modello ambizioso non hai neanche le risorse per amministrare bene. Poi certo servono anche risorse adeguate per Roma Capitale con una legge ad hoc».
Ma perché Roma si è arenata?
«Perché è finito un modello di sviluppo ma invece di costruirne un altro, a partire dalle energie locali, si è lanciata la palla in tribuna. La città fino a 10/15 anni fa è cresciuta su una manifattura minoritaria (ma solida) aiutata dall'industria di Stato, sull'ambizione di una piccola borghesia impegnata nel pubblico impiego e nell'industria culturale e sull'espansione edilizia che generava capitali e lavoro. Quando queste tre molle piano piano si sono indebolite la crescita non è stata più sistematica e la città ha perso la bussola».
Con quali conseguenze?
«Roma vive una doppia crisi: economica (che trascinava al ribasso il Pil italiano anche prima del Covid) e sociale. La piccola borghesia non riesce più a spingere la città e le classi più deboli non sono più aiutate ad emanciparsi. Le crisi che si sono susseguite hanno colpito soprattutto quelli che erano giovani, e sono ora giovani famiglie con figli piccoli. La città non cresce e le disuguaglianze sono esplose».
Risultato?
«Drammatico. C'è un libro recente (Le mappe della disuguaglianza, Donzelli) dove tre studiosi e studiose romani, Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi, fotografano il livello di sviluppo dei vari quartieri della città e si scopre che ci sono differenze come fra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo. Rimettere in moto la crescita è interesse soprattutto di quelle parti della città che sono più in affanno. Ma per combattere le disuguaglianze servono anche politiche nuove, orizzontali. Lo ha spiegato bene Fabrizio Barca: le disuguaglianze non si contrastano con politiche residuali, ma informando di quei principi tutte le diverse aree di intervento, dalla cultura all'urbanistica. Aggiungo: una città così frammentata non può neanche crescere».
Come proviamo a uscire dal tunnel?
«So per esperienza diretta quanto è difficile. La futura amministrazione dovrà avere come direttrice fondamentale l'aumento del Pil della città e contemporaneamente distribuire lo sforzo e i benefici fra i vari quartieri in modo policentrico, anche dando più poteri ai Municipi, ma in maniera molto più coordinata tra loro e col Campidoglio. Nel saggio del Mulino sono più articolato, ma Roma può trovare un'orizzonte solo in una alleanza sociale che lavori su crescita, inclusione e innovazione».
Un Recovery Fund romano, insomma. Lungo quali direttrici?
«Roma deve proporre dieci grandi progetti dettagliati, ognuno della durata di dieci anni, e sulla base di essi chiedere all'Europa un contributo importante di risorse. Bisogna uscire dagli schemi del passato e, con le dovute certezze, arriveranno anche risorse private, dagli imprenditori romani e da quelli internazionali».
Ma i romani forse sono più interessati agli autobus in orario.
«Innovazione e lavoro ordinario vanno avanti assieme: solo con direttrici chiare e progetti di lungo respiro sarà possibile cambiare il modello dei servizi pubblici comunali. Quello di oggi non funziona: non basta cambiare i manager ma va trasformato il modello di gestione delle municipalizzate, studiamo il modello Enel che è forse la società più innovativa d'Italia e magari combiniamolo con un modello tedesco col quale coinvolgere sindacati e utenti nei consigli di sorveglianza. C'è una terza direttrice importante: bisogna tornare a elaborare operazioni urbanistiche innovative e trasformative, come accennato da Francesco Rutelli nella sua intervista al Messaggero».
Operazioni urbanistiche concrete?
«A Roma hanno il loro quartier generale le maggiori società italiane che si occupano di energia verde. Perché non pensare allora ad un Parco dell'Innovazione energetica in un'area non centrale? Perché non rilanciare il Parco della musica riutilizzando anche il Palazzetto dello Sport, abbandonato da tempo? Ma si può pensare anche a strutture collocate a raggiera dedicate all'aero-spazio o, ad esempio, ai rapporti economici e culturali con l'Africa. Oppure ancora investire nuove risorse in una città dell'audio-visivo o in iniziative dedicate a valorizzare l'agro-romano che è immenso e dove vive molta più gente di quanto non si creda a partire dall'area intorno al Grande Raccordo. Le operazioni urbanistiche devono essere orientate a rafforzare e nutrire nuovi assi di sviluppo economico. Bisogna tornare ad avere cura della piccola manutenzione, ma Roma senza pensieri grandi e ambiziosi semplicemente non è se stessa. Queste due cose camminano assieme».
E dove le troverà il prossimo sindaco le risorse?
«La liquidità non manca. Altre città sono state capaci di mobilitare capitali privati, importantissimi, assieme a quelli pubblici. Ma soprattutto a Roma c'è una rete gigantesca ma dispersa di associazioni, comitati, singoli volontari. Grandi Università e grandi competenze oggi sono ignorate. Roma ha aziende grandi, oltre a piccole e medie imprese, che non vengono valorizzate in un racconto tutto negativo. Il prossimo Sindaco deve mettere a sistema questa immensa ricchezza umana, farla diventare una vera squadra condividendo idee ed energie nella visione di una città che torni ad avere ambizioni e a trainare l'Italia».

 
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