La chiave del ritorno/L’eredità di Renzi e la nuova stagione

di Alessandro Campi
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Lunedì 12 Dicembre 2016, 00:05
Quello di Renzi - vuoi la giovane età, vuoi la determinazione del carattere - non suona come un addio, ma come un arrivederci. In un Paese dove non si dimette nessuno dagli incarichi, per non dover ammettere pubblicamente di aver sbagliato o di aver assolto male le proprie responsabilità, lui l’ha fatto.

È vero, ha perso malamente il referendum che lui stesso ha voluto e che politicamente si è intestato, sino a farne un pronunciamento sulla sua persona più che sulle modifiche costituzionali. Ma aveva pur sempre una maggioranza parlamentare disposta a sostenerlo ancora. E un Capo dello Stato che avrebbe preferito rimandarlo dinnanzi alle Camere, per una verifica o per un nuovo incarico.

Esiste tuttavia un senso della coerenza politica che sul momento costa molto, in termini personali e di carriera, ma che alla lunga gli elettori quasi sempre apprezzano e premiano. Renzi aveva annunciato il ritiro in caso di sconfitta ed è stato di parola. Ha rimesso l’incarico in forme irrituali per essere la nostra ancora una democrazia parlamentare: in diretta televisiva e non nelle mani del Presidente della Repubblica. Ma più che una questione di galateo istituzionale, il passaggio la dice lunga sulle contraddizioni e incoerenze del nostro sistema politico: divenuto nella sostanza (e nella percezione degli stessi elettori) personalistico-presidenziale, ma rimasto nelle sue architetture fondamentali partitico-parlamentarista.

Una contraddizione che la riforma della Carta avrebbe dovuto in parte sanare, ma si è visto come è andata a finire. Gli italiani, un giorno o l’altro, dovranno mettersi d’accordo con se stessi e capire cosa vogliono realmente.
Era in realtà un ritiro dagli incarichi di governo, quello da lui annunciato: ma i suoi nemici più risoluti lo hanno spacciato per un ritiro definitivo dalla politica. Questo puntiglio filologico nasconde, più che una nobile forma di intransigenza etica, una grande meschineria politica. Oltretutto la speranza di vedere politicamente morto il proprio avversario, senza concedergli alcun riconoscimento o alcun’altra possibilità dopo la sconfitta, non porta bene a chi si nutre di un tale sentimento. Lo si è visto con Berlusconi: tenuto in vita e motivato nella sua lotta anche da coloro che per anni non gli hanno augurato altro che di scomparire dalla scena una volta per sempre.

Il problema è quel che farà ora Renzi. Qualche indicazione viene dalla scelta di Paolo Gentiloni come guida del prossimo governo: certo condivisa dall’intero Pd, ma voluta fortemente dal premier uscente. Non perché lo consideri come un suo fedelissimo o come un replicante al quale potrà impartire ordini dall’esterno, secondo le interpretazioni che vanno per la maggiore. Ma per un ragione forse diversa: l’approccio Gentiloni è quello che lo stesso Renzi avrebbe dovuto in qualche modo praticare, da un certo momento in poi, e soprattutto è quello che Renzi potrebbe sperimentare nella sua nuova stagione politica. Vale a dire un metodo dialogante, inclusivo, disposto all’ascolto. Ma non per questo inciucista o all’insegna della mediazione fine a se stessa. Un Renzi bis: non come formula di governo, ma come stile politico e mentalità. Dopo il rottamatore, il costruttore. Dopo il giovane arrembante e anche un tantino irridente, il politico che accetta il confronto e la mediazione senza perdere per questo in determinazione.

Dalla sconfitta qualcosa Renzi avrà certamente imparato. Ad esempio che una stagione del renzismo si è probabilmente esaurita e che una differente dovrà aprirsi, se vuole tornare ad essere convincente. Il suo esordio sulla scena nazionale, partendo dall’esperienza fiorentina, fu folgorante e spiazzante: il mito della velocità e il giovanilismo sbandierato, l’ansia di cambiare tutto e tutti, il protagonismo e il presenzialismo, il fastidio per le mediazioni e i filtri sociali nella convinzione che oggi basti un tweet o un blitz televisivo per parlare direttamente ai cittadini. È stata una fase persino salutare, che ha messo a nudo certi arcaismi della politica italiana e costretto gli altri attori politici a innovare e cambiare a loro volta, o a mettere a nudo le loro idee antiquate e sostanzialmente conservatrici.

Come è appunto accaduto nello scontro sulle riforme: finito male per Renzi ma con quest’ultimo che almeno ha provato a inserire un elemento di discontinuità reale in un Paese altrimenti ingessato e capace solo di dire “no”. Qualcosa di simile è avvenuto sulla scena internazionale, dove l’Italia di Renzi ha rotto una lunga consuetudine di vassallaggio e di acquiescenza nei confronti dei Paesi leader o di quell’Europa burocratica e distante dai popoli e dalle realtà delle nazioni. Un protagonismo che ha provato a ridare orgoglio e patriottismo a un Paese che ha sofferto di deficit.

Ma alla prova del governo questa visione della politica, ipercinetica e interventista, molto giocata sulla capacità del leader a coprire ogni spazio sociale e ad accentrare su di sé ogni decisione, ha anche mostrato qualche limite. Il nuovo Renzi, quello che a partire da gennaio comincerà a girare per le piazze d’Italia, in vista della battaglia congressuale e del futuro voto politico alle urne, è probabile - come sembra di capire da alcuni indizi - che si presenti con un atteggiamento più morbido e meno tagliente. Non si tratta di modificare la sua natura polemica e combattiva, o di mostrarsi meno ambizioso di quanto siano tutti coloro che fanno politica. Ma la sua leadership, che al momento nel Pd e nella sinistra nessuno è in grado di contrastare in modo serio, dovrà continuare a puntare sulla forza delle proposte ma con un surplus di capacità di includere che potrà impedire la coalizione dei nemici. Siamo circondati da capi politici che urlano e sbraitano, che vogliono mandare tutti a casa e minacciano sfracelli se non si dà loro ascolto. Il Renzi che verrà ha una chance che gli deriva dall’esperienza: evitare l’uno contro tutti e il tutti contro uno.

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