Il «Va pensiero» agli Invalides, le note di Verdi contro i barbari

di Mario Ajello
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Sabato 28 Novembre 2015, 00:08
​Il tricolore (italiano) nel tricolore (francese). In musica, però. Ieri il «Va pensiero», più della Marsigliese, è stato il coro in cui si è raccolto tutto il dolore e tutta la voglia di riscatto della Francia ferita e dell’Europa che vuole fermare il terrore. Non l’«Inno alla gioia» di Beethoven, che è il motivo ufficiale dell’Unione europea, ma le note di Giuseppe Verdi sono risuonate alla fine della cerimonia in ricordo delle 130 vittime di Parigi. Sarebbe sbagliato dire che la scelta del «Va pensiero» sia un omaggio all’Italia, anche se tra le foto dei caduti quella di Valeria Solesin è stata una delle prime a comparire sullo schermo del ricordo agli Invalides. E sarebbe ingiusto inorgoglirci perchè il coro del «Nabucco» ha avuto l’onore di rappresentare la sintesi e il riassunto del sentimento che in queste settimane sta vivendo il nostro continente. Però, non c’è dubbio che niente più del «Va pensiero» riesce a contenere un messaggio universale, ed essere l’inno della tristezza di un popolo e di tutti i popoli, della volontà di risorgimento contro ogni oppressione (in questo caso islamista), del sentimento di comunità e di patria al di sopra di qualsiasi epoca e di qualsiasi contesto storico (poveri leghisti, non avevano capito niente quando inneggiavano al Maestro di Busseto). IDENTITÀ
«Oh mia patria sì bella e perduta! / Oh membranza sì cara e fatal!». Verdi come risposta alla jihad funziona eccome. Ma è tutta la musica («Più canzoni, più concerti, più spettacoli», ha detto il presidente Hollande) che può fare qualcosa contro la barbarie. Non può batterla, ma riesce a trasmettere a tutti ciò che siamo. E costituisce un pezzo della forza della nostra identità. Il libro del filosofo Carlo Augusto Viano, contro il dilagante pensiero debole, aveva come titolo guarda caso «Va pensiero» (Einaudi) ed era azzeccatissimo quel titolo. Nel coro di Verdi c’è infatti l’opposto del debolismo che ha reso vulnerabile, non da venerdì 13 novembre ma anche da molto prima, la nostra civiltà.

Che, viceversa, la musica rende forte, sennò non si spiegherebbe l’odio che i fondamentalisti islamici provano per ogni tipo di spartito occidentale: da Bach ai Beatles, da Ravel (il Bolero suonato su un pianoforte in Place de la Rèpublique è stato uno dei momenti più commoventi delle serate successive alla strage di Parigi) agli Eagles of Death Metal, il gruppo rock della notte maledetta al Bataclan, che al Bataclan ritorneranno per il concerto di riapertura di questo tempio profanato.

Il lutto si può cantare sulle note di «Imagine». E il pianista che arrivò in bicicletta fuori dal Bataclan a eccidio appena consumato, per suonare la canzone magica di John Lennon, ha svolto un ruolo di rassicurazione e di continuità. E ieri, dopo la «Marsigliese» e prima del «Va pensiero», sul palco della cerimonia parigina tre cantanti, Yael Naim, Nolwenn Leroy e Camelia Jordana, hanno intonato «Quand on n’a que l’amour» di Jacques Brel: «Quando si ha soltanto l’amore / per parlare ai cannoni / e nient’altro che una canzone / per convincere un tamburo...».

LA TRAVIATA
Con la musica talvolta si esagera, come nel caso della celebre scena di «Apocalipse now» di Stanley Kubrick, in cui gli elicotteri americani bombardano il Vietnam al ritmo della «Cavalcata delle valchirie» di Wagner. Ma la musica funge comunque da collante storico-culturale. E Verdi è Verdi. Verdi è Parigi, Verdi è «La traviata»: «Parigi, oh cara, noi lasceremo, / la vita uniti trascorreremo. / De’ corsi affanni compenso avrai, / la tua salute rifiorirà...». E Verdi è il sentimento repubblicano, di una grande repubblica che dev’essere quella europea, tanto è vero che nel periodo in cui scrisse il «Nabucco», era animato da spiriti mazziniani.
Il male si combatte con ogni mezzo. E la musica aiuta come può.