Trappola umanitaria/Paghiamo le furbizie di Bruxelles

di Massimo Adinolfi
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Sabato 1 Luglio 2017, 00:05
La risposta dell’Unione europea non si sa se arriverà; di sicuro però si farà attendere. Conta poco che il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, abbia definito eroici gli sforzi che l’Italia è chiamata a compiere per dare accoglienza ai migranti, in realtà siamo alle solite: non c’è, allo stato, alcuna comune volontà dei Paesi europei di far fronte alla situazione. Così ascoltiamo quello che pensa la Francia, che parla per bocca di Macron e dichiara disponibilità ad accogliere i soli rifugiati, non i «migranti economici». Poi sentiamo la Cancelliera Merkel affermare con maggiore generosità (almeno a parole) che l’Italia e la Grecia non vanno lasciate sole.

Registriamo gli apprezzamenti per l’impegno italiano e lamentiamo invece che alcuni paesi europei se ne lavino le mani; ma in questo confuso concerto di voci discordi, regolate esclusivamente dagli interessi nazionali, si disperde il significato stesso dell’unità europea. Non si capisce dove si trovi, chi la rappresenti, in che modo si senta chiamata in causa. In realtà, non c’è, in questo momento, nessun altro tema nell’agenda europea che sia declinato su base nazionale più del tema migrazioni. 

E d’altra parte non c’è nessun altro tema che, più di questo, possa mai trovare soluzione su un piano meramente nazionale. Perché non è una soluzione la chiusura delle frontiere, così come non lo è l’apertura. Respingere, così come accogliere, sono verbi che richiedono di essere costruiti in una frase: quando, dove, come.

Lo si vede bene dal gesto spazientito che ha spinto il governo italiano a minacciare la chiusura dei porti alle organizzazioni non governative che portano sulle nostre coste, quotidianamente, migliaia di migranti. A parte i complessi problemi legati al diritto internazionale (ma un’emergenza è un’emergenza: e il diritto, soprattutto il diritto internazionale, finisce di solito con l’adeguarsi), è chiaro che per il ministro dell’Interno, Marco Minniti, non si tratta di una soluzione, ma di una misura resa necessaria, oltre che dal numero eccezionale di sbarchi di queste ore, dalla difficoltà a spiegare cosa mai impedisca alle navi di attraccare in altri porti: maltesi, spagnoli o francesi. Minniti ha detto: «sarei orgoglioso se di tutte le navi che operano nel Mediterraneo centrale una sola, una soltanto, anziché arrivare in Italia arrivasse in un altro porto europeo».

Doveva solo aggiungere che sarebbe stato orgoglioso di essere europeo, ed è proprio questa l’aggiunta che manca. Una gestione comune del fenomeno, sia in termini di rimpatri che in termini di ricollocamento nei Paesi dell’Unione, non c’è. Il piano Juncker di ripartizione pro quota dei nuovi arrivi (che pure vale solo per i rifugiati, aventi diritto alla protezione internazionale) è un clamoroso fallimento. E soprattutto non c’è una politica estera comune verso i Paesi africani. 

È bene essere chiari: le politiche di accoglienza sono politiche umanitarie: benemerite, ma da sole non possono bastare. Diviene anzi sempre più difficile mantenerle, se non sono affiancate da tutto ciò che uno Stato (e una comunità di Stati, se esiste) può fare per regolare i rapporti coi Paesi viciniori. Finché la Libia rimarrà nell’attuale situazione di instabilità, rimarrà anche il corridoio lungo il quale si riverseranno tutti coloro che cercano in Europa migliori condizioni di vita. Possiamo resistere all’idea che i barconi carichi di migranti debbano essere respinti, solo se non ci limitiamo ad attrezzarci per i salvataggi in mare, ma proviamo anche a ridurre a monte i flussi migratori. Diversamente, non ci tireremo via dalla trappola umanitaria che gli egoismi degli altri Stati membri dell’Unione scarica sul nostro Paese.

Perché non è per una cieca fatalità che la meta preferita degli scafisti che attraversano il Mediterraneo è l’Italia, e la rotta libica il percorso più affollato. Ciò dipende da un calcolo preciso, da una diversa probabilità di successo, assicurata lungo queste vie, e per esempio dalla forte riduzione dell’agibilità della rotta balcanica. Dunque non si tratta di fenomeni fuori da ogni controllo. È anzi evidente che qualora diminuissero dovessero diminuire le aspettative di un buon esito, diminuirebbero anche gli sbarchi. 

Orbene, se non si vuole tradurre questo assioma spietato ma evidente in una politica attiva di respingimenti, bisogna almeno che si rendano disponibili altre leve di azione. Se quelle detenute dall’Unione latitano, e quelle a disposizione del nostro Paese si rivelano insufficienti, allora non ci sarà accoglienza che tenga. E il rischio che cresca il numero di coloro che saranno accolti solo dalle onde del mare aumenterà enormemente, macchiando per sempre l’onore dell’Europa.
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