Le leggi violate/Quelle furbizie dell’integrazione a senso unico

di Alessandro Campi
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Sabato 26 Agosto 2017, 00:05
Gli immigrati hanno sempre ragione? Essendo una componente sociale debole, che oltre a fuggire dalla povertà spesso porta con sé i traumi dovuti alla guerra o alle persecuzioni politiche, c’è chi sostiene che ogni loro comportamento, anche quando sfocia nell’illegalità, debba essere letto con indulgenza. E’ quello che pensano la sinistra e una parte significativa del mondo cattolico, entrambe pregiudizialmente schieratesi contro la polizia per il modo ‘inumano’ con cui avrebbe condotto lo sgombero dei richiedenti asilo eritrei e somali che da anni occupavano abusivamente uno stabile di proprietà privata nel cuore di Roma.
Ma un tale cedimento al sentimentalismo di matrice religiosa o all’ideologia non è ciò che ci si aspetta da uno Stato degno di tale nome. Il rispetto delle leggi, si ripete spesso, è la base d’ogni convivenza civile. Il fatto che gli stessi italiani non siano campioni di legalità – infatti è la nostra maledizione e una delle cause della palude socio-economica nella quale stiamo sprofondando – non vuol dire che, una volta giunto in questo Paese, ognuno possa poi fare quel che gli pare. 


L’integrazione si realizza innanzitutto sulla condivisione delle regole, non sulla loro violazione sistematica giustificata dal disagio sociale, dalla necessità economica o, nel caso degli immigrati, dalla propria condizione di vittime o di ‘ultimi’.
<HS9>Dopo gli scontri di Roma si è arrivati a denunciare derive autoritarie o un nascente “razzismo istituzionale” (lo ha fatto Giuseppe Civati, che ha anche chiesto le dimissioni del capo del Viminale). In realtà la polizia ha semplicemente ottemperato a un provvedimento di sequestro e sgombero. Come al solito è mancata la politica, ancora una volta nella persona del Sindaco di Roma, che non ha saputo individuare alcuna soluzione per favorire il trasferimento dei richiedenti asilo verso nuove destinazioni.

Secondo il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che ieri l’ha pubblicamente difesa insieme al comportamento della polizia (proprio mentre il suo collega di partito Roberto Fico stigmatizzava l’azione violenta delle forze dell’ordine, a conferma di come la doppiezza e la furberia grillina poco abbiano da invidiare a quelle antiche dei democristiani), la Raggi prima che dei migranti deve occuparsi dei romani. Ma viene facile rispondere che occuparsi prioritariamente di questi ultimi in questo caso voleva dire impegnarsi in prima persona sull’intera questione: trovando soluzioni alternative, evitando cioè di ridurre tutto ad un problema di pura pertinenza prefettizia. Il risultato di questa latitanza, per Roma e i romani, è stata l’ennesima cattiva figura mediatica e il rafforzarsi dell’idea che la città sia ingovernabile e amministrativamente alla deriva. Ma sul tema dell’immigrazione la politica sembra mostrare la sua impotenza o confusione di idee (o la sua ambiguità, come nel caso di quei gruppi e movimenti della sinistra antagonista che si sono infiltrati nella protesta e l’hanno strumentalmente sobillata) anche su un piano che va oltre la cronaca sin qui richiamata.

Ci si riferisce ad un dettaglio che però appare rivelatore di come in Italia, al di là dei buoni proponimenti, una seria e incisiva politica di integrazione non sia stata ancora intrapresa: diversi degli etiopi o eritrei intervistati dalle televisioni dopo gli scontri, alcuni di loro nel nostro Paese da diversi anni, si esprimevano in un italiano a dir poco elementare e stentato.

<HS9>Capita spesso in effetti di incontrare immigrati, talvolta anche regolari e residenti da tempo nel nostro Paese, che dunque dovrebbero aver regolarmente superato i test linguistici previsti dalla legge, che in realtà parlano poco e male l’italiano, il che ovviamente rischia di accentuarne la condizione di ‘stranieri’ al di là della loro posizione legale. Troppo impegnati ad affrontare il fenomeno migratorio in termini di continua emergenza umanitaria, forse abbiamo dimenticato che accogliere chi arriva da altre zone del mondo, provenendo da situazioni di disagio e sofferenza, con l’obiettivo di offrire loro un nuovo e stabile futuro, non vuol dire solo garantire un pasto caldo, occuparsi che i documenti siano in regola, assegnare qualche capo di vestiario, dare un tetto sotto cui abitare e magari offrire la possibilità di un lavoretto precario.

Dovrebbe anche significare, superata questa prima fase, mettere ogni singolo immigrato, attraverso una più che accettabile conoscenza della lingua, nella condizione di interagire con l’insieme della società (i cittadini italiani ma anche gli immigrati da paesi diversi dal proprio), anche per evitare che si resti nel chiuso della propria comunità etnica di riferimento, arrivando a maturare risentimenti e frustrazioni nei confronti della società in cui si vive ma sentendosene nella sostanza escluso.

<HS9>La lingua non è uno strumento neutro di comunicazione, ma la chiave di accesso più immediato e utile alla vita sociale e culturale di un paese e alle regole spesso informali che lo governano. Non basta conoscerla nelle sue forme essenziali o apprenderla in forma spontanea, giusto per farsi capire, ma bisogna impossessarsene nel modo migliore possibile perché è grazie ad essa che si costruiscono una cittadinanza sostanziale e un’effettiva integrazione. Questo sforzo di apprendimento compete naturalmente a chi arriva in Italia, se davvero vuole inserirsi stabilmente nel suo tessuto civile e sfruttarne tutte le potenzialità di crescita e mobilità.

Ma per quanto possibile andrebbe incentivato e sostenuto a livello pubblico e di associazioni di volontariato, più di quanto già non si faccia attraverso i corsi di insegnamento dell’italiano indirizzati a immigrati e stranieri (soprattutto adulti, per i ragazzi inseriti nel circuito scolastico il discorso è diverso) e andando oltre anche quanto previsto dalla legislazione vigente: quest’ultima sembra accontentarsi di una comprensione basica della lingua italiana, laddove il problema è invece la sua conoscenza e padronanza quanto più possibile articolata e reale. La mancanza di dialogo che c’è stata a Roma probabilmente è dipesa anche da questi fattori. E dire che c’è ancora chi si ostina a parlare di ius soli. Come dare la cittadinanza a chi non ha fatto nemmeno lo sforzo per parlare italiano? 
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