Caos in Sud America/ Una lezione per chi cerca scorciatoie protezioniste

di Loris Zanatta
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Lunedì 3 Aprile 2017, 00:03
Che succede in America Latina? C’è un filo rosso che unisce il golpe di Caracas all’assalto al Parlamento di Asunción nel Paraguay? Le piazze di Buenos Aires mobilitate in sostegno del governo sotto assedio peronista a quelle brasiliane ostili al governo Temer? Il tramonto dell’era Correa in Ecuador alla lunga agonia cubana? A che si deve il crollo della popolarità dei governi d’ogni colore: moderato in Messico, liberale in Perù, socialista in Cile? 
Generalizzare è quasi sempre abusivo. Farlo sull’America Latina è sbagliato. Eppure è ciò che l’immaginario europeo suole fare: ci piace pensare a quella remota area del mondo come ad una regione esotica popolata da un’indistinta galassia di Paesi arretrati e caotici dove impera l’ingiustizia e l’abuso. E dove di tanto in tanto sorge qualche redentore su cui edificare miti. Finché il sogno si tramuta in incubo e come nulla fosse ci giriamo altrove; fino al prossimo mito. Capitò col castrismo e il sandinismo; è capitato col chavismo, la cui sequela di autoritarismo e miseria era annunciata e prevista. Che ne è oggi dei tanti che per un decennio ci chiesero di emularlo? Spariti, silenzio. Eppure l’America Latina ci è così simile! Ad essa ci lega un retaggio culturale profondo, ben più denso e robusto di quello istituzionale che lega l’Europa latina a quella nordica od orientale. 

Se così è, allora l’America Latina e quel che oggi vi accade dovrebbero insegnarci qualcosa. A volere trovare un tenue punto in comune tra tante crisi così diverse tra loro in paesi che lo sono ancor più, ce n’è uno assai rilevante per noi. L’America Latina ci rivela infatti i nefasti effetti che sulla prosperità economica, il pluralismo politico e la qualità istituzionale produce il populismo. Non il populismo etnico e xenofobo contro cui è più facile generare anticorpi, ma il populismo latino che si ammanta di valori nobili come l’eguaglianza, la giustizia sociale, l’onestà; un tipo di populismo caro a molti populismi nostrani. Parrà strano, ma non lo è. Vediamo perché.

Il primo fronte da prendere in esame è quello economico. Come non prendersela con l’economia? È l’imputato più comodo e visibile. Sospinta dai prezzi stellari delle materie prime, la regione crebbe a ritmi vertiginosi per un decennio. Poi però quei prezzi sono crollati, ed ecco servito su un piatto d’argento la spiegazione di tutti i mali. Peccato che sia una mezza verità, ossia una bugia. Se da un lato è vero che il ciclo economico si è invertito e che ciò ha causato recessione, lo è altrettanto che la crisi non ha colpito tutti i paesi allo stesso modo: quelli che come il Venezuela e l’Argentina, il Brasile e l’Ecuador, avevano adottato modelli dirigisti e protezionisti profittando delle vacche grasse per fare lievitare la spesa pubblica, sono stati travolti dalla crisi; quelli che come Perù, Colombia e Cile avevano coltivato il libero commercio e la disciplina fiscale, hanno retto assai meglio l’urto e pur rallentando, hanno continuato a crescere. In tempi in cui tutti sparano contro la globalizzazione evocando antiche sovranità e barriere doganali, sarà bene pensarci sopra.

Poi c’è il fronte politico, perfino più importante. Ciò che i populisti hanno fatto in America Latina come ovunque sono soliti fare, è trasformare il loro popolo in tutto il popolo, nell’unico popolo virtuoso e legittimo minacciato nella sua purezza e identità da disonesti oligarchi affamati di lucro. In suo nome e in nome dei grandi valori di cui si ritenevano gli unici depositari, hanno preso possesso delle istituzioni e dello Stato. Come non farlo, se il popolo lo esige? Hanno così soggiogato il potere giudiziario e il parlamento, intimidito o represso le opposizioni, elevato la loro dottrina a religione di Stato, usato i denari pubblici per comprare ciò che il consenso non bastava ad ottenere. La loro logica manichea ha trasformato la dialettica politica in guerra di religione e le istituzioni pubbliche in bottini di guerra. Il risultato è quello che vediamo: la crisi del populismo diventa crisi di regime e minaccia di derivare in guerra civile; di onestà e giustizia sociale neppure l’ombra. I paesi che hanno invece evitato la trappola populista tendono a risolvere le loro crisi senza traumi: nelle urne e attraverso la libera espressione del pluralismo politico e istituzionale. 

Così intese, le crisi in atto diventano più comprensibili e ci raccontano quanto sia cambiata l’America Latina, quanto sia diversa dai vetusti stereotipi ancora in voga; e quante cose potrebbe insegnarci se ce ne liberassimo. Mentre l’Europa va in cerca di nuovi redentori, proprio da essi cercano di liberarsi i venezuelani che reclamano libere elezioni, gli argentini che non vogliono tornare al passato, i brasiliani ansiosi di tornare alla normalità costituzionale, gli ecuadoriani stanchi di leader carismatici, i paraguayani e i boliviani contrari alle eterne rielezioni dei presidenti in carica. Che vi sia crisi di rappresentanza in gran parte dell’area è evidente e che ognuno protesti per differenti motivi ancor più; ma che molti latinoamericani reagiscano invocando i valori della grigia, imperfetta e vituperata democrazia liberale non era scontato.
 
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