L’Unione riscopra le parole della gente

di Andrea Ripa di Meana
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Martedì 28 Giugno 2016, 00:16
La sordità di gran parte del mondo politico-istituzionale pro-Ue alle indicazioni degli elettori aumenta.
A partire dai referendum francese e danese del 2005 sulla ratifica del progetto di Costituzione europea sino a Brexit, la reazione è sempre la stessa: negazione e rimozione del problema. Un vero e proprio riflesso condizionato.
La Gran Bretagna esce dalla Ue? È colpa del populismo, dei vecchi che danneggiano i giovani, dello storico isolazionismo inglese, dell’austerità, dell’immigrazione, dei media che amplificano le paure dei ceti meno istruiti, della diseguaglianza che alimenta sentimenti anti-sistema. E ora che i britannici sono fuori, tanto peggio per loro, bastoniamoli per bene rinegoziando tutto, si accorgeranno presto che pessima idea è tornare ad essere una piccola isola in un mondo dominato da Paesi giganteschi, si leccheranno le ferite quando Londra perderà il suo rango di capitale finanziaria, avranno un brutto risveglio quando l’uscita dalla Ue farà risorgere il nazionalismo separatista scozzese e nord-irlandese. 
 
Quanto a noi 27 Paesi della Ue, avanti a tutta forza verso una «sempre maggiore integrazione politica». Anzi, avanti con cooperazioni rafforzate tra nuclei più coesi di Paesi che si integrano a velocità maggiore dei rimanenti. Sì, certo, è scontato che ci vuole una Ue “diversa”, più attenta ai bisogni sociali e alla crescita, più concludente su immigrazione e sicurezza. Ma l’unico modo per arrivarci è appunto di inforcare di nuovo la bicicletta, pedalando a tutta forza verso il rafforzamento dell’Unione politica.
Per inciso, e limitandosi alla Gran Bretagna, ci si potrebbe anche chiedere perché mai i “populisti” anti-Ue riscuotano ovunque consensi crescenti, perché mai i vecchi dovrebbero danneggiare i propri figli, perché gli inglesi abbiano rinunciato alla posizione comodissima di far parte della Ue solo a metà conservandone i benefici senza subirne i vincoli, perché l’austerità abbia tanto ridotto la popolarità della Ue anche nei Paesi forti. E le obiezioni potrebbero continuare molto a lungo, non appena si allargasse lo sguardo al numero elevato e crescente di Paesi il cui elettorato si sta spostando sempre più verso posizioni non favorevoli al progetto Ue attuale.

Ma sarebbe tempo sprecato. Perché l’unica domanda davvero importante su cui l’opinione pubblica europea dovrebbe concentrarsi dopo Brexit è quella che ponevano sabato sul Corsera Joska Fisher e su Le Monde il suo direttore Fenoglio: a che serve, a che cosa può servire la Ue?
La domanda sembra ovvia a un osservatore neutrale che abbia assistito al circolo vizioso dell’ultimo decennio di disaffezione degli elettori europei e di fallimenti politici della Ue sui temi più spinosi. Ma non pare esserlo affatto per i ciclisti della Ue. Per costoro la UE (la Commissione, il Consiglio dei Ministri, il Parlamento) è semplicemente l’istituzione di governo di riferimento per tutti i cittadini europei, per ora solo sui temi principali e in prospettiva su tutti i temi pubblici. Chiedersi a che serve la Ue quando gli elettori europei sono insoddisfatti equivale a chiedersi a che cosa serve il Governo o il Parlamento di un singolo Paese quando il suo elettorato non ha più fiducia nell’azione pubblica nazionale: una domanda mal posta, che andrebbe riformulata non con riferimento alle istituzioni, ma alle politiche adottate. 

Un nuovo avvio della discussione pubblica su cosa possa fare la Ue per i suoi cittadini diviene possibile solo se si adotta un punto di vista più realista, che tenga in qualche minimo conto sia gli orientamenti espressi dagli elettori, che le ragioni dei fallimenti politici recenti della Ue. Realismo vorrebbe, in primo luogo, che si prenda atto che il federalismo politico non può essere il punto di arrivo e l’obiettivo tendenziale cui agganciare il progetto di crescente “integrazione politica”, perché non riflette il sentimento prevalente degli europei. I quali si sentono tali, ma parlano lingue diverse e si sentono parte di comunità nazionali affratellate e sempre più integrate, ma ben distinte. 
In secondo luogo, si dovrebbe dare il giusto peso al tema del “deficit di democrazia” del processo decisionale Ue. Un’analisi realistica di molti problemi politici che sono stati catalogati come “sovranazionali” e dunque risolubili solo a livello Ue - inclusi alcuni dei maggiori, come il controllo dei flussi migratori – dovrebbe riconoscere che sono in realtà fortemente idiosincratici e differenziati tra un Paese e un altro, sia nelle cause, che nelle manifestazioni correnti, che nelle soluzioni disponibili. E che dunque non si può sottrarne il controllo alle comunità nazionali. 
L’abbandono del finalismo politico del progetto Ue, con il corollario della inevitabilità della cessione di porzioni crescenti di sovranità dagli Stati verso Bruxelles, non è per nulla scontato. Nella percezione dei suoi fautori, la rinuncia al mito della piena Unione politica sancirebbe una sconfitta del progetto europeo, che verrebbe riportato nei limiti angusti degli albori e diverrebbe poco più che un sistema di accordi economico-commerciali. Essi sottolineano che è stata la recente prevalenza del metodo intergovernativo rispetto a quello comunitario, con il conseguente rafforzamento dell’influenza dei Paesi maggiori sugli affari Ue, ad aver reso più difficile l’azione di governo dell’Unione.
La visione politica alternativa a quella finalistica è stata sin qui minoritaria e poco considerata, ma è ben viva da decenni e si può far risalire a figure di grandi europeisti come Dahrendorf. Essa considera la Ue come un meccanismo istituzionale di produzione di beni pubblici europei, di meccanismi e di regole volti alla creazione di maggiore e sempre crescente uniformità nella vita individuale e collettiva dei cittadini. In questa visione alternativa, la Ue ha la sua ragion d’essere e la sua utilità rilevantissima nella creazione di forze di “integrazione dal basso”. L’integrazione fra i Paesi europei non è un presupposto di efficacia dell’azione politica e delle scelte della Ue, predicato sul progressivo trasferimento di sovranità verso Bruxelles, ma piuttosto il risultato dell’azione di governo a livello europeo, ben visibile a tutti i cittadini. 

In questa visione, il deficit di democrazia – vero o comunque vivamente percepito – si affronta anche impostando con chiarezza il rapporto tra dimensione nazionale e dimensione europea dei maggiori problemi politici. Torniamo a quello più bruciante, il controllo dei flussi migratori. Oggi si tende automaticamente a ritenere che le soluzioni debbano essere comunitarie, presumendo che i flussi migratori percepiti come minacciosi dalle varie comunità nazionali provengano dall’esterno dell’Unione. Presunzione doppiamente erronea.
Primo perché, come hanno dimostrato gli elettori inglesi, sono percepiti come minacciosi anche i flussi intra-comunitari. E poi perché, dato che i flussi extra-Ue sono assai differenziati sia per la provenienza geografica dei migranti (diversi per caratteristiche culturali, religiose, etniche, professionali) che per la loro destinazione desiderata, il loro impatto è estremamente differenziato da un Paese all’altro. La sola soluzione comunitaria non riesce affatto ad operare una sintesi efficace degli interessi eterogenei dei 27 Paesi, come dimostrano gli incandescenti contrasti su quote di accoglienza e barriere ai confini. Tanto meno quando la sintesi non è nemmeno tentata e il Paese leader impone a tutti gli altri la stipula di un accordo, proprio con il Paese extra-Ue con cui ha rapporti secolari e di cui ospita milioni di immigranti dal dopoguerra.
Concludendo, dopo Brexit sembra davvero l’ora di abbandonare la “teoria della bicicletta”. Continuare a parlare di rilancio tout court dell’integrazione politica nella Ue è solo un boomerang. Ignorare la diffusione della percezione di un deficit di democrazia è un modo sicuro per alimentare i consensi anti-Ue e dei populismi. Parlare di politiche comuni e di esercizio dei relativi poteri da parte di istituzioni Ue quando i Paesi membri agiscono su base individuale – come in politica estera, dove il negoziato con Putin sulle sanzioni è stato franco-tedesco e dove ogni Paese continua a fare missioni commerciali in proprio per conquistare quote di mercato nei mercati emergenti – è controproducente e alimenta il senso di inutilità della costruzione comunitaria. 

È ora di coniare messaggi più realistici sulla Ue, evitando di creare aspettative impossibili da soddisfare. L’Unione Europea è utile agli europei in mille aspetti della vita di tutti i giorni, crea beni pubblici e uniformità che produrrà integrazione civile a lungo termine. Il resto è retorica politica, che l’elettorato europeo tollera sempre meno, e che conviene abbandonare. Se non ora dopo Brexit, quando?
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