Akihito, quando abdicare diventa una liberazione

di Aldo Masullo
4 Minuti di Lettura
Martedì 9 Agosto 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 01:56
Il breve discorso con cui Akihito, l’ottantaduenne imperatore giapponese, ha manifestato con grande umiltà e gentilezza il suo desiderio di abbandonare il trono, lasciando ad altri, al parlamento, come del resto la costituzione gl’impone, la gestione politica dell’inusuale abdicazione, suscita subito, per la sua motivazione, il non lontano ricordo della rinunzia di Joseph Ratzinger al papato. Ricordo le più turbate e le più spericolate discussioni che la clamorosa abdicazione di un pontefice suscitò nel 2013. A prima vista tra le due rinunce le analogie non mancano, suggerite soprattutto dalla mitezza dei due personaggi. Senza dubbio però il gesto di Ratzinger fu ben più traumatico: la decisione di un sovrano assoluto, capo di una Chiesa universale, non solo terremotava le istituzioni di questa Chiesa ma poneva in crisi il riferimento morale più alto che, pur nell’avanzata secolarizzazione del mondo occidentale, nel suo «non potersi non dirsi cristiano» ad esso restava.

Il gesto risonò come un atto d’inquietante significato politico. Solo la sottile penetrazione psicologica di uno scrittore come Claudio Magris riuscì a suggerire un’altra via interpretativa: «È divenuto Papa e sul suo pontificato sarà la Storia a giudicare. Ma si vedeva subito che non era felice di fare il Papa».
 
Da parte mia, ricordando alcuni sintomatici scritti giovanili di Ratzinger, tentai di comprenderne l’invincibile disagio esistenziale, e scrissi che un’anima credente la quale appassionatamente s’interroga può provare un insopportabile estraniamento, se per l’altissimo ufficio è gettato nell’aperta piazza della Storia, affollata di urla e di scontri corpo a corpo, di lusinghiere promesse e di rapidi tradimenti. Solo chi ha un potere può sentirsene schiacciato e perfino minacciato.

Non è certo questo il caso dell’imperatore del Giappone oggi. Akihito è l’immediato erede della più umiliante mortificazione. Il padre infatti, Hirohito, da imperatore del più potente, e prepotente Stato asiatico del XX secolo, dopo la meritata ma implacabile vendetta americana per la guerra scatenata e perduta, era stato costretto, per la prima volta parlando e mostrandosi al suo popolo, ad annunziare la resa incondizionata e infine a proclamare che l’imperatore giapponese non è di natura divina, come fino a quel momento era stato considerato.
Peraltro, per l’attuale costituzione nipponica, l’imperatore non solo non è divino, ma non ha alcun potere: non è che il simbolo dello Stato e dell’unità del suo popolo. È perfino rarissimo che l’imperatore pronunci un pubblico intervento. Egli è tanto spoglio di qualsiasi funzione di sia pure formale potere, che neppure della sua rinuncia al trono, atto per eccellenza politico, può disporre e neppure apertamente parlare, ma solo farne cenno in forma obliqua, indiretta, non decidendo e neppur formalmente invocando la decisione, ma semplicemente confessando con umiltà il timore che per le sue molte limitazioni gli sarà sempre più difficile svolgere i suoi doveri di imperatore simbolico.

Akihito mostra in modo esemplare come la mitezza non sia affatto debolezza, ma forza di accettazione del compito che la storia del proprio popolo come un destino assegna, compreso in questi ultimi anni il silenzioso dolore per un indirizzo politico di riarmo nazionalistico che egli è ben lontano dal condividere, ma in cui non ha diritto d’interferire se non in modo discreto e informale.

L’animo sensibile e studioso di Ratzinger era oppresso dal peso delle responsabilità e delle insidie del potere. L’animo del mite Akihito è mortificato dall’impotenza e, credo, da quel che senza alcun potere soltanto gli resta, la terribile noia di faticosi impegni puramente cerimoniali. L’amore impotente per il suo popolo, se non si è potuto esprimere nell’azione, si è condensato nella partecipazione emotiva ai suoi dolori. Per l’emozione del terremoto-tsunami del 2011 dovette subire un grave intervento cardiaco.

Fuori delle emozioni dolorose per le sventure del suo popolo, e fuori delle emozioni orgogliose per le sue affermazioni scientifiche e produttive, all’imperatore del Giappone non resta che la noia.
Nella storia non pochi sovrani sono stati costretti, dalle drammatiche vicende della lotta politica, a lasciare, a malincuore, il loro potere. Non manca neppure chi vi rinunciò volontariamente e con gioia, come Cristina di Svezia. Alcuni, insofferenti del peso del potere, se ne sono comunque liberati. Akihito, avendo pagato senza sconti il suo dovere di nascita al proprio popolo, oggi desidera finalmente con tutta la forza della sua mitezza di essere sollevato «dall’insostenibile leggerezza» della noia. Egli finalmente cesserà d’essere un simbolo e ridiventerà una persona. Solo così, se non diventerà felice, come nessun uomo lo è, non sarà più necessariamente infelice.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA