Mafia, il racconto di Mori: «Ciancimino? Lavorava per noi, era sotto copertura»

Vito Ciancimino
di Luigi Fantoni
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Venerdì 9 Settembre 2016, 08:55 - Ultimo aggiornamento: 10 Settembre, 08:06
Vito Ciancimino non ebbe alcun merito nella cattura di Totò Riina e non fu il mediatore di alcuna «trattativa» tra lo Stato e la mafia. Il suo vero ruolo, come lo ha tratteggiato il generale Mario Mori, sarebbe stato quello di un «agente sotto copertura» in missione nel sistema illegale degli appalti. Tutto il resto, così come lo ha descritto Massimo Ciancimino, non esiste. Il figlio di don Vito - attacca l'ex capo del Ros - ha costruito una colossale montatura. In tanti punti della sua linea di difesa, prospettata con lunghe dichiarazioni spontanee davanti alla corte d'assise, Mori pronuncia la parola «falso». Ed enumera in aula le sue certezze.

IL PAPELLO
La «trattativa»? Non c'è mai stata. Il «papello» con le richieste della mafia per fermare le stragi? Non è mai esistito. E la cattura di Totò Riina? Vito Ciancimino non c'entra nulla: fu l'esito di un lavoro investigativo autonomo. A conti fatti, il generale ripete le cose che ha già detto nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano dal quale è uscito con l'assoluzione. Lo spunto nuovo è quello che attribuisce a don Vito il ruolo di agente sotto copertura molto vicino a quello di un confidente.

I contatti di Mori con Ciancimino furono quattro, e si svolsero tra agosto e ottobre 1992. Poi il dialogo venne gestito dal procuratore del tempo, Gian Carlo Caselli, e dal pm Antonio Ingroia. Il Ros aveva cercato il contatto con l'ex sindaco perché lo aveva individuato come lo snodo dei rapporti tra mafia e mondo politico-imprenditoriale.

LE DUE INCHIESTE
Era il tempo di Mani pulite a Milano e di un'indagine su mafia e appalti che il Ros, con Mori e Giuseppe Donno, conduceva in Sicilia. Quella era considerata la pista in grado di aprire varchi negli scenari delle stragi di Capaci e via D'Amelio, e Ciancimino era sembrato l'uomo giusto. Mori è convinto che la sua disponibilità a dare una mano corrispondeva anche a un suo interesse personale. Ciancimino cercava di attenuare i colpi della sua vicenda giudiziaria (era sotto processo per mafia e appalti) e accettò di prendere contatti con «l'altra parte» ma chiese alcune precauzioni: gli incontri dovevano avvenire all'estero, il mediatore doveva essere lo stesso Ciancimino e chiese un «occhio di riguardo per i suoi problemi giudiziari». Non ottenne nulla o quasi. Non contribuì alle indagini in modo determinante.

IL FANTOMATICO FRANCO
Ma in compenso - è la tesi di Mori - il figlio Massimo ha messo in piedi un «processo mediatico» parallelo, ha tirato fuori la storia del fantomatico «Carlo/Franco», un funzionario dei servizi di sicurezza che avrebbe assicurato il collegamento con Nicola Mancino e Virginio Rognoni, e ha reso dichiarazioni «a rate» alimentando una famigerata «messa in scena» impostata su un un copione romanzesco. Per Mori c'è una sola verità che lo riguarda: non ha mai «trattato» con nessuno, ha rispettato le regole di un leale investigatore.
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