La morte di Gelli/ Il Burattinaio nel Paese delle Trame

di Paolo Graldi
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Giovedì 17 Dicembre 2015, 00:04
«Poeta italiano molto noto», scriveva sul suo sito elencando riconoscimenti letterari raccogliticci e sfuggendo, non per modestia ma per impudenza massima, al filo nero, nerissimo che ha legato la sua lunga vita a tante tragedie italiane. E non solo a quelle. Perché Licio Gelli si è spento dentro i suoi 96 anni lasciando intatti capitoli di storia patria.

Capitoli di storia che lo hanno visto nei ruoli del protagonista occulto e potente o del temibile testimone delle altrui malefatte. Misteri, segreti, anfratti bui o in una penombra avvolta nell’imbarazzo di ricordi e ricostruzioni che attraversano questo Paese, costruendo instancabilmente un’opera corale di figure dimenticate forse e tuttavia decisive nello svolgersi di eventi che ci hanno più volte portato sulla soglia del burrone autoritario. «Sono nato fascista e morirò fascista», ripeteva spesso l’ex gran maestro venerabile della loggia massonica P2, conferendosi una coerenza che i biografi hanno coniugato con ben altre e diverse imprese, sempre un po’ in disparte rispetto al centro del fuoco e però sempre protagonista.

Quest’uomo se n’è andato portandosi dietro chissà quali verità scomode, trattenute e custodite anche quando l’evidenza dei fatti e delle indagini lo invischiavano nella lunga scia degli scandali ed anche del terrore e delle stragi, nella grande ampolla della Guerra fredda, dei fronti contrapposti, delle nostalgie mai sopite e sempre accarezzate verso un Piano di rinascita (questo il vero nome del progetto) che mirava a trasformare la Repubblica da parlamentare a presidenziale, con la magistratura sottoposta al governo e con il potere dei militari in salsa argentina, più rossa sangue. Certo i milioni di articoli che ne hanno accompagnato le vicende giudiziarie hanno contribuito, con colorazioni anche smaccate e infedeli, a farne una specie di burattinaio onnipotente, di Belfagor per tutti gli usi, di venerabile all’amatriciana.

Eppure, al culmine del suo potere occulto, fino al 17 marzo 1981 allorché i magistrati di Milano Turone e Colombo trovarono a Castel Fibocchi i primi pacchi di documenti sulla loggia segretissima e l’elenco dei suoi 962 iscritti, Licio Gelli era davvero potente. Diploma di quinta elementare, già direttore commerciale di una nota ditta di materassi a Frosinone, ex combattente per Franco in Spagna e poi in camicia nera per Mussolini e quindi, oplà, compagno partigiano sulle montagne pistoiesi, puntiglioso denunciante di collaborazionisti da passare per le armi, era un personaggio a cui andavano a baciare la pantofola fior di generali dei servizi segreti, politici a largo raggio, ministri compresi, magistrati con stola d’ermellino, giornalisti grandi firme, industriali di rango, banchieri con ambizioni planetarie.

Gente come Michele Sindona e Roberto Calvi (che brutta fine, tutti e due) attraversavano i saloni dell’Excelsior, splendore alberghiero di via Veneto, per raggiungerlo nella suite dove il venerabile ascoltava, disponeva, consigliava, raccomandava e tramava un po’ per affari e un po’ per quella passionaccia per la politica. La sua politica. Un millantatore, un mago del raggiro, un tramista da osteria? No, quelle stanze erano il regno della raccomandazione e delle carriere, per uomini ambiziosi e determinati, tiepidi con le fatiche della democrazia, avidi di galloni; quella stanza ovattata di imbottiture anti ascolto, divani e poltrone era diventata nel tempo davvero un piccolo tempio del potere segreto. Processi di tutti i generi, dall’eversione nera all’evasione fiscale, qualche breve carcerazione, fughe dalla cella assai poco rocambolesche e piuttosto accompagnate da braccia amiche, arresti domiciliari per motivi di salute (cagionevole solo all’occorrenza) Licio Gelli è riuscito a infilarsi perfino là dove, al Viminale, si cercava (?) di trovare la prigione brigatista di Aldo Moro, fautore del compromesso storico con i comunisti di Enrico Berlinguer.

Riuscì a contribuire con la complicità forse troppo ingenua dell’editore, Angelo Rizzoli, e del temibile ciambellano Bruno Tassan Din, alla scalata del Corriere della Sera, il cui controllo totale (mancato) rappresentava la gemma più ambita e preziosa, per arrivare poi a mettere la mani sul Banco Ambrosiano di Calvi e sulla Banca privata di Sindona, il primo ammazzato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, il secondo morto avvelenato (suicidio?) in carcere dopo aver finto un rapimento da parte della mafia. Ma nel curriculum di Licio Gelli ritroviamo anche la strage dell’Italicus, la strage di Bologna, il delitto del giornalista Mino Pecorelli, il tentativo di golpe di Junio Valerio Borghese finito in burletta e però molto pericoloso. In tutte queste storie Licio Gelli ha giocato un ruolo, quasi sempre da imputato e assai spesso anche da imputato assolto per non aver commesso il fatto.

È un fatto che, per esempio la condanna a dieci anni per aver depistato le indagini sulla strage del 2 agosto 1980, lo collega ai servizi deviati in quella trama infinita che ha temibilmente oscurato le vicende di quegli anni. Parecchi amici discretissimi, pochi dichiarati, molti avversari risoluti, e una moltitudine esecratori e qualche menestrello per soffiare sul fuoco di una leggenda, quella del burattinaio che sognava di giocare al puparo con il suo Paese, e di molte altre verità incompiute, spezzate, tuttora ridotte a frammenti. Chissà se sarà possibile ora che anche il venerabile «è stato insabbiato», definizione di un cinico detrattore, riannodare quel fino nero, dipanarlo fino in fondo e scoprire dove portava. E magari dove porta ancora adesso.
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