Gli edifici confiscati/ Quei simboli della legalità non premino ora l’illegalità

di Marco Gervasoni
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Martedì 29 Agosto 2017, 00:11
Quasi settemila in Sicilia. Duemilacinquecento in Campania e in Calabria. Ma milleduecento tanto in Lombardia quanto nel Lazio. Madamina, il catalogo è questo: degli edifici requisiti alle mafie. Sono tanti infatti, tra immobili e aziende, quelli fino a oggi sottratti alla criminalità organizzata - e ieri questo giornale ha pubblicato le cifre regione per regione. E’ anche per il loro alto numero che il Ministero dell’Interno ha stanziato una cifra consistente, affinché siano pronti ad accogliere gli sfollati dagli stabili occupati abusivamente; si presume per una sistemazione, se non definitiva, certo non breve. 
Capiamo le legittime ragioni che conducono il Viminale, responsabile dell’ordine, a evitare i bivacchi di decine di persone, come quelli ultimi, causati dallo sgombero (giusto) del palazzo di piazza Indipendenza - ora una parte degli ex occupanti dimora all’aperto in Piazza Venezia. Non è solo una questione di immagine ma di igiene e di sicurezza pubblica, oltre che di dignità degli sfollati e dei cittadini che abitano Roma (e che pagano salatissime tasse locali). Ma se anche fosse una questione di immagine, sarebbe giustificata: in quali altre capitali del mondo avanzato si vedono accampamenti di decine di persone nei centri storici? Il problema va affrontato e gli sgomberi degli edifici occupati devono proseguire. Resta un dubbio sulla destinazione, se prima non verranno fornite le opportune garanzie.

I beni sottratti alle mafie sono importanti per due ordini di ragioni. Una, [/FORZA-RIENTR]materiale: poiché il loro valore catastale è probabilmente elevato, esso deve essere restituito alla collettività. La seconda è simbolica (ma i simboli sono importanti): segnano la vittoria dello Stato, e quindi anche dei poliziotti tanto denigrati che, assieme a magistrati, carabinieri e altre forze dell’ordine, sono in prima linea in questa battaglia. 
Quelle case sono un simbolo di legalità. Mentre non sono certo tali le organizzazioni che gestiscono il racket delle occupazioni degli stabili e al di fuori della legge sta anche chi vi vive. Sarebbe quindi molto discutibile premiare chi quotidianamente attenta alle regole e alla proprietà privata, sistemandoli in strutture che, altrimenti, potrebbero essere utilizzate da chi ne ha effettivamente diritto e bisogno. Ecco, diritto, questa parola, così tanto abusata (soprattutto al plurale) l’abbiamo letta poco nei commenti a cuore aperto degli editorialisti contrari agli sgomberi. Non tutti quelli che occupano le case ne hanno diritto secondo la legge: l’hanno i migranti senza permesso di soggiorno. L’hanno coloro che, rifugiati o no, del permesso di soggiorno dispongono. Ma nelle forme e nei modi che disciplinano l’assegnazione delle cosiddette case popolari: regole che valgono tanto per gli italiani quanto per gli stranieri. 

O non è razzismo al contrario quello di tanti che si commuovono per i disperati sloggiati e non dicono una parola sugli italiani in regola (e non sono pochi) impossibilitati, soprattutto in seguito agli effetti della crisi economica, a pagare un affitto? Sarà quindi necessario, se si vorrà procedere in questa direzione, che prefetti e comuni verifichino con rigore chi tra gli occupanti abbia realmente diritto ad essere sistemati negli edifici confiscati alle mafie e chi no. Ma se anche questa cernita fosse rigorosa, permangono altri rischi: che la soluzione, da provvisoria, diventi definitiva. Che la gestione finisca in mano a burocrazie incapaci o magari in conflitto tra loro: con il pericolo che la mala gestione riconduca di nuovo questi beni al di fuori della legalità, e magari in mano di organizzazioni criminali. 
Per non parlare della possibilità che, attorno a queste abitazioni, si creino delle enclave, dei luoghi franchi preclusi agli italiani, come già per esempio accade in alcune aree di Milano. Se l’alternativa non può essere l’immobilismo, le soluzioni trovate dovranno essere eque: e rispettare i cittadini italiani.
 
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