Fino a 9 anni di carcere per giornalista che diffama politico: spunta «norma pro casta»

Fino a 9 anni di carcere per giornalista che diffama politico: spunta «norma pro casta»
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Mercoledì 25 Maggio 2016, 21:00 - Ultimo aggiornamento: 27 Maggio, 08:51
Nel disegno di legge che difende gli amministratori pubblici da intimidazioni, violenze e minacce c'è una norma che rischia di mandare in carcere fino a 9 anni il giornalista che diffama un politico, un amministratore pubblico o un magistrato. Si tratta dell'articolo 3 del provvedimento (n.1932-A) che, a prima firma Doris Lo Moro (Pd), è stato già approvato dalla commissione Giustizia del Senato il 3 maggio scorso con il solo voto contrario del senatore di «Idea» Carlo Giovanardi, che l'ha subito ribattezzata «norma pro Casta». L'articolo 3 del ddl, ora all'esame dell'Aula, introduce una nuova norma nel codice penale: l'articolo «339 bis» che di fatto aumenta le condanne «da un terzo alla metà» se il fatto «è commesso ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell'adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio».

E questo relativamente a tutta una serie di reati: diffamazione (art.595), lesioni personali (art.582), violenza privata (art.610), minaccia (art.612) e danneggiamento (art.635). Se si considera dunque l'aggravante che di solito viene considerata per i giornalisti (articolo 13 della legge n.47 del 1948 a cui rimanda l'articolo 595 indicato nel ddl Lo Moro) che è la diffamazione consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, il cronista che diffama il politico, il magistrato o il singolo amministratore pubblico rischia fino a 9 anni di carcere. La pena massima in questo caso è infatti di 6 anni e se si aggiunge la metà della pena (6+3) si arriva a 9. Doris Lo Moro e il relatore del provvedimento Giuseppe Cucca (Pd), respingono al mittente ogni critica e spiegano che non è affatto nell'intenzione del legislatore fare una «norma pro Casta», né colpire così duramente i giornalisti visto che «nel titolo della norma» si parla di «atti intimidatori di natura ritorsiva».

E questo anche se diversi tecnici della giustizia di maggioranza ribattono «che non è importante quello che si scrive nel titolo perché ciò che conta è quello che si scrive nella norma...». E la norma, così com'è scritta non piace agli esponenti di «Idea» Gaetano Quagliariello e Carlo Giovanardi, che parlano di «strabiliante trovata», di «mero privilegio che ha l'effetto di intimidazione preventiva» e di «norma alla marchese del Grillo» dalla celebre frase pronunciata da Alberto Sordi nel film: «Io so io e voi non siete un c...». Né è gradita al M5S che comunque in commissione l'ha votata. «Non mi ricordo come abbiamo votato», assicura un disorientato Mario Michele Giarrusso, ma «senz'altro la cambieremo», incalza Maurizio Buccarella. Intanto alzano gli scudi in difesa della categoria la Fnsi e l'Ordine dei giornalisti. Anche perché nella stessa commissione Giustizia del Senato, che ha licenziato il ddl per la difesa degli amministratori pubblici, giace nel cassetto un provvedimento del tutto opposto: quello messo a punto dall'attuale ministro Enrico Costa che il carcere per i cronisti punta invece ad eliminarlo.

«È grave - scrivono Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti della FNSI - che il Parlamento lavori ad inasprire le sanzioni a carico dei giornalisti», soprattutto quelli «che per svolgere il proprio dovere fanno i conti ogni giorno con intimidazioni e minacce della criminalità». «Da un lato si sbandiera come già realizzata (ma di fatto insabbiata) l'abolizione del carcere per la diffamazione a mezzo stampa - commenta l'Ordine - dall'altro, con un blitz, si inaspriscono le pene determinando una disparità di trattamento tra politici e magistrati, che vengono considerati cittadini di serie A, e tutti gli altri». «Se comunque la norma non la cambiano al Senato - assicurano i tecnici di giustizia della maggioranza alla Camera - la cambieremo noi qui a Montecitorio perché così com'è non va...».
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