Israele e Libano, mille soldati italiani nella Blue line: il timore di un'escalation e i dubbi sull'evacuazione

Quello italiano oggi è tra i contingenti più numerosi schierati lungo il confine per evitare nuovi conflitti dopo la guerra del 2006

Israele e Libano, mille soldati italiani nella Blue line: il timore di una escalation e i dubbi sull'evacuazione
di Riccardo Palmi
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Sabato 14 Ottobre 2023, 15:27 - Ultimo aggiornamento: 18:31

Se il ruolo che l'Italia sta cercando di assumere nel conflitto tra Israele e Palestina è quello del mediatore, è anche perché a circa 300 chilometri dalla Striscia di Gaza si trovano poco più di mille italiani. Un contingente del nostro esercito è infatti schierato in Libano, come parte integrante della missione Onu Unifil a cui partecipano circa 10mila uomini in rappresentanza di 48 nazioni (quello italiano è il secondo a livello numerico con 1.168 militari). Qualora la temuta escalation non dovesse essere evitata, e le poche azioni dimostrative compiute nei giorni scorsi dai miliziani di Hezbollah crescere di intensità, per i militari italiani oggi la situazione si complicherebbe non poco. 

L'operazione


Il loro compito è infatti garantire sicurezza e stabilità in un'area che va - all'interno del cosiddetto settore Ovest - dal confine della Blue line (la linea di demarcazione, in parte ancora minata, che sotto il controllo di Unifil separa le forze israeliane da quelle libanesi), al fiume Litani a Nord verso Tiro. Un'area vastissima di circa 120 chilometri per quaranta, pattugliati notte e giorno a bordo dei blindati Lince e Centauro. Strade principali, carrettiere e villaggi vengono battuti palmo a palmo spesso assime alle Laf, le forze armate libanesi, principalmente con l'obiettivo di fornire assistenza umanitaria. Tra i compiti però rientrano anche check points di sicurezza, controlli notturni e, se dovesse capitare, il sequestro di armamenti nelle mani dei guerriglieri. Azioni delicate che per forza di cose espongono gli uomini della missione Onu a grossi rischi. I missili lanciati dopo l'attacco di Hamas hanno non a caso sibilato proprio nei pressi della base di Chama.

La soglia di allerta è stata elevata e i bunker, così come i radar, sono tenuti pronti per ogni evenienza. Un piano di evacuazione potrebbe portare in salvo i militari in poche ore. D'altro canto però, lasciare l'area sarebbe pericolosissimo. Gli italiani hanno in Libano un ruolo centrale testimoniato non solo dal fatto che questa è stata la nostra prima missione militare del dopoguerra (è al 33esimo mandato, i primi elicotteri arrivarono già alla fine degli anni Settanta ma la fanteria nel 1982) quanto dal coordinamento dei 3.600 caschi blu dell'operazione Leonte affidato all'esercito tricolore. 

 

I rischi


Il Libano del resto ha un ruolo strategico nell’ambito dello scenario che si sta delineando. L'allargamento del conflitto, come ha spiegato in una nota Palazzo Chigi «avrebbe conseguenze incalcolabili in tutta l'area», anche solo a livello migratorio. L'opera di stabilizzazione e la funzione di "cuscinetto" è dunque determinante, per quanto preoccupi non poco il ministro della Difesa Guido Crosetto. Al momento però non vi sono segnali concreti di un'escalation regionale e il rischio principale, come ha spiegato il portavoce dell’Unifil Andrea Tenenti, «è quello di un errore» che possa far deflagrare un'altra porzione di conflitto interrompendo il più lungo periodo di stabilità che il Libano abbia mai vissuto, 17 anni. L'ultima guerra di 34 giorni risale infatti al 2006 e causò la morte di oltre mille persone (tra militari e cittadini) e il ferimento di cinquemila. Un dramma che i caschi blu, al pari della diplomazia di mezzo mondo, sta cercando di scongiurare. Anche perché nella Striscia di Gaza oggi il bilancio è già tragicamente più alto.

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